Ragazzi fuori è il terzo rapporto dell’associazione Antigone sugli Istituti di pena per i minori. Un documento, realizzato anche con la collaborazione dell’Isfol, l’Istituto per lo Sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, che si compone di numeri, dati e risultati delle osservazioni dirette dei volontari che hanno visitato i sedici Ipm presenti sul territorio nazionale. “Dal 1998 abbiamo un osservatorio che lavora sulle carceri per adulti – spiega Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone – con speciali autorizzazioni del Ministero della Giustizia che ci permettono di visitare i penitenziari, monitorarne le situazioni di vita all’interno anche attraverso colloqui specifici con il personale. Negli anni abbiamo affinato una tecnica di raccolta dei dati, quantitativi e qualitativi, ed abbiamo cominciato a pubblicare i primi rapporti, prima ogni due anni, e poi annualmente. Nel 2009 per la prima volta abbiamo avuto le stesse autorizzazioni per entrare negli istituti per i minori. Abbiamo tra i 25 e i 30 osservatori volontari coinvolti”.
I numeri degli Istituti di pena per minori sono contenuti, e osservandone l’andamento nel tempo si registra un processo di decarcerizzazione costante, cominciato negli anni Cinquanta e portato a compimento con il nuovo codice di procedura penale minorile del 1988: cosa è cambiato da allora al 2015?
Nel 1988 abbiamo avuto il Codice di procedura penale specifico, e da allora è partito un processo realmente culturale e procedurale di decarcerizzazione dei minorenni, perché questo codice offre al giudice una serie di possibilità per non procedere non solo alla pena detentiva, e quindi adottando misure alternative come la comunità, ma anche per non procedere affatto all’azione penale. Si pensi alla messa in prova: i servizi sociali tengono il minore in osservazione e se la prova va bene, il reato si estingue. I casi di recidiva qui sono irrisori perché il ragazzo si sente responsabilizzato dalla fiducia che gli viene data dalle istituzioni. Un’impostazione basata sulla riabilitazione della persona, e sulle potenzialità del minore di riacquistare fiducia nelle proprie capacità.
Quali sono state le peculiarità rispetto al processo di cambiamento che ha interessato la detenzione degli adulti negli ultimi anni?
Per gli adulti non c’è stato un vero cambio di rotta dal punto di vista culturale: in tempi recenti la sentenza Torregiani, adottata dalla Corte europea dei diritti umani l’8 gennaio 2013, ha portato ad una serie di riforme nelle carceri. Ma perchè è stato esplicitamente richiesto all’Italia di risolvere una serie di problemi legati alle condizioni di vita dei detenuti, a partire dal sovraffollamento, pena la condanna per migliaia di volte, perché gli stessi ricorsi, per le stesse questioni, sono arrivate per circa 4mila volte. Perciò si è parlato di sentenza pilota: un solo caso, uguale ad altre migliaia, è stato esaminato come esemplare. Tornando ai minori, nell’ultimo anno i numeri dei detenuti sono leggermente aumentati non perché si stia facendo maggiore uso della pena detentiva, ma perché dal 2014 una nuova norma permette a chi ha commesso un reato da minore di restare negli Ipm non più fino a 21 ma fino a 25 anni, prima di essere trasferito in un carcere per adulti.
Il fatto che i detenuti minorenni siano numericamente pochi non li mette a rischio di marginalità, dentro e fuori dagli Ipm?
Quando i numeri dei detenuti sono bassi, il che è un bene, c’è davvero il rischio che fra le maglie di questa residualità finiscano solo i casi di marginalità sociale, quelli esclusi da qualsiasi altro percorso alternativo. Non a caso abbiamo un’altissima percentuale di ragazzi stranieri, le ragazze sono quasi esclusivamente rom. Anche per questo si sta pensando a come attuare una serie di rifome che rivoluzionino la vita di questi minori in carcere. Il governo ha messo in piedi gli Stati generali sull’esecuzione penale, e fra i 18 tavoli attivati io faccio parte di quello sui minori: uno degli aspetti su cui si sta ragionando è la costruzione di piccole strutture da dieci, massimo dodici ragazzi che sostituiscano gli istituti attuali. Che siano disposti più capillarmente sul territorio e che abbiano un’attenzione specifica alla vita del singolo. Dal punto di vista teorico resterebbe sempre un carcere, ma con uno stile di vita nettamente diverso.
Quali sono le caratteristiche degli Ipm oggi?
C’è una media piuttosto alta di gestione di queste strutture, con casi di eccellenza come l’Ipm di Nisida. Ma si può comunque fare di più, ad esempio con la scuola: c’è un successo scolastico ancora troppo basso, e l’istruzione deve essere centrale per emancipare dalla vita criminale, anche a costo di trovare strategie alternative e creative di insegnamento e coinvolgimento di questi ragazzi, che spesso sono indietro con i programmi ministeriali già prima di finire negli istituti, non hanno fiducia in loro stessi e sentono di avere altro a cui pensare. Bisogna trovare il modo di interessarli.
Come vengono gestiti i processi di reinserimento nella società alla fine del periodo di detenzione?
È un aspetto che andrebbe curato maggiormente, la fase del reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. In teoria la legge prevede appoggi territoriali che in realtà sono scarsamente potenziati. C’è una buona continuità fra i servizi sociali del Ministero della Giustizia e quelli del territorio, cosa che non avviene per gli adulti detenuti. C’è un minimo di continuità ma dovremmo potenziare la connessione fra formazione professionale in istituto e possibilità di lavoro una volta fuori. Magari cominciando ad introdurre concretamente il giovane, prima della fine della pena, in un posto di lavoro, grazie a sinergie con le attività territoriali. Se compariamo l’Italia con altri paesi, possiamo comunque affermare che il nostro sistema penitenziario per i minori è comunque impostato secondo un modello educativo, dove la riabilitazione prevale sulla repressione e i sistemi disciplinari e punitivi.