Opatovac, 10 km circa dal confine serbo-croato. 23 settembre 2015. ore 2 am.
La notte a Opatovac ha un suono tetro, un correre di ombre di uomini e donne stipati in treni e pullman nelle notti dei paesi di frontiera dell’Europa centro-orientale. Questo è il campo di transito in cui vengono trasferiti i rifugiati che riescono ad attraversare il confine al valico di Šid-Bapska. Siamo all’estremo confine meridionale tra Serbia e Croazia, una no mans’ land di campi di grano e vigneti.
Sono notti di marce queste, di valichi e check-point, di madri e bambini senza più forza da un esodo che traccia i profili di una tragedia antica. Il destino di una parte di umanità costretta ad abbandonare i propri luoghi. Succede nel cuore dell’Europa del 2015. Succede da settimane e anche in questa notte. Qui al campo il flusso di arrivi è continuo. Un pullman dietro l’altro per ore. Fino alle prime luci dell’alba. Uomini, donne e bambini, moltissimi dei quali neonati, in marcia da settimane da Siria, Afghanistan e Iraq che per essere giunti fino a qui hanno già attraversato Turchia, Grecia, Macedonia e Serbia. Vengono portati a Opatovac per essere registrati una volta entrati in Croazia.
In attesa di entrare al campo sono disposti in file dietro sbarre di ferro. In estenuanti transiti notturni. Le famiglie con i bambini piccoli hanno priorità di ingresso al campo. Gli uomini e le donne senza famiglia devono aspettare in un recinto di ferro all’esterno. Quando anche lì non c’è più posto i nuovi arrivati vengono fatti accucciare a terra, sull’asfalto gelido, in attesa di potere entrare. Sono da poco passate le due di mattina quando Qunaf mi avvicina, è spaventata e confusa, continua a cercare senza pace tra la folla degli ultimi arrivi. Nell’attraversamento del confine serbo, a un paio di chilometri da qui, ha perso il marito e i quattro figli, che sono rimasti indietro. Mi chiede se verranno portati anche loro in questo campo. Se li rivedrà.
Qunaf è nata ventinove anni fa a Qamishli, nel Kurdistan siriano, dove ha sempre vissuto. Il suo viaggio verso l’Europa è iniziato tre settimane fa, quando da Izmir sulle coste turche ha deciso di prendere il mare insieme a tutta la famiglia.
“Avevamo paura, certo, ma niente può essere più pericoloso della Siria. Ho quattro figli, non posso vivere con il terrore che ogni giorno possano non tornare a casa”.
Mohammed la tranquillizza, le dice che il marito e i figli arriveranno con i prossimi pullmann della notte allo stesso campo. È nato e cresciuto a Londra venticinque anni fa in una famiglia metà libanese e metà irachena ed è uno dei pochissimi operatori qui a Opatavoc in grado di parlare arabo e di potere essere di effettivo aiuto ai rifugiati in transito. È un volontario che a Londra lavora come oculista.
“Quando ho visto quello che stava succedendo sulla rotta balcanica ho sentito che dovevo fare qualcosa di concreto. Insieme ad altri amici siamo risuciti a raccogliere da parenti e conoscenti 2500 dollari e li abbiamo investiti in cibo, coperte, medicine, pannolini per bambini, latte in polvere, qualsiasi cosa potesse servire a persone che sono in viaggio da settimane. Abbiamo deciso di venire qui, sul luogo, a dare il nostro aiuto direttamente. Tutti noi, il gruppo di amici con cui sono, veniamo da famiglie miste. Sentivamo il dovere di esserci perché sappiamo per esperienza che quello che stanno vivendo queste persone oggi è capitato a migliaia di altri in passato e potrebbe succedere ancora a ognuno di noi in futuro”.
È infaticabile Mohammed, con il suo sorriso. A ogni nuovo pullman, per tutta la notte, è sempre il primo sulla porta ad accogliere e a tranquillizzare nella lingua madre i nuovi arrivati.
Arrivano dal valico di Bapska dopo settimane di un’odissea infinita.
È a qualche chilometro da Opatovac, il punto di attraversamento dal quale i rifugiati possono entrare in Croazia dalla Serbia. Anche se qui ogni giorno le cose cambiano. Oggi questo valico è aperto domani chiuso. La geografia di questi confini è instabile quanto l’equilibrio tra le nazioni che da questi sono separate. Da quando la rotta balcanica è stata deviata dalla chiusura del confine ungherese il flusso dei rifugiati è stato costretto a deviare sulla tratta croata. Bapska dista dal campo di Opatovac qualche chilometro. Nell’ultimo tratto si procede a piedi, oltrepassando una piccola radura di erba pesta. I lasciti dell’attraversamento sono ovunque. Giocattoli, resti di cibo, bottiglie vuote d’acqua. Una coperta fradicia e un quaderno pesto con la grafia illeggibile vicino a un sandalo da bambino a stringhe grigie e arancioni.
Cammino nel buio completo, la notte qui è rischiarata solo da una luna a metà. Sono passate da poco le quattro di mattina quando distinguo un cordone di poliziotti, a ridosso del valico, una ventina di metri da dove mi trovo. Mi avvicino quanto posso e devo forzare la mente per accettare l’immagine che affiora dal buio. Su una grande radura d’erba, nel fango di una terra gelida e madida d’acqua, migliaia di persone giacciono accucciate le une alle alter per proteggersi dal freddo e da una pioggia che scende implacabile su questo paesaggio da apocalisse. I corpi, chiusi come fiori martoriati sotto le coperte lercie, al riverbero fioco della luna creano un paesaggio che lo sguardo non può accettare. Ci sono uomini anziani, donne incinte, moltissimi bambini.
Quando dal campo di Opatovac arriva l’ordine di fare muovere i rifugiati, la polizia gli intima di alzarsi e di cominciare l’ennesima marcia notturna. Nel caos del nuovo ordine in preda all’angoscia di non sapere cosa accadrà, gli uomini iniziano a correre senza meta verso un luogo per loro ignoto abituati ormai come sono semplicemente ad andare avanti. A camminare.
In un angolo al ciglio della strada vedo una bambina piangere senza sosta. É sola. La pioggia che continua a scendere rende al paesaggio una surrealità scomposta. Tragica.
“Meriem” mi singhiozza il suo nome, nella concitazione di una folla esausta ha perso la madre, con la quale è in viaggio dall’Afghanistan. Incontro la donna solo molto tempo dopo, alla tenda dei soccorsi dove abbiamo atteso il suo arrivo.
Quando una luce fredda torna ad alzarsi su questa parte sommersa di mondo.
***
Botovo, confine tra Croazia e Ungheria. 25 settembre 2015. Ore 9.30 pm.
Devo tenerla per mano, Lava, per cercare di non cadere sul sentiero melmoso a ridosso del bosco. Cerco di fare luce sul nostro percorso con una piccola pila che ho portato.
Qui il buio è assoluto e insieme a noi camminano centinaia di persone. Anziani, bambini, neonati e persone inferme.
Lava ha ventun’anni e ha fatto il Viaggio insieme alla sorella Susi – di due anni più grande – che cammina insieme a noi. Sono di Damasco e arriveranno in Svezia, dove hanno già qualche amico. Il loro bel viso è curato nonostante la stanchezza e la paura. Anche loro hanno passato la notte precedente al campo di Opatovac. Sorridono anche quando mi dicono: “Siamo spaventate perché in Ungheria abbiamo sentito che la polizia è violenta. È da Edirne che camminiamo. Vogliamo solo arrivare”.
Edirne è la città all’estremo nord turco, al confine con Grecia e Bulgaria. È da quel passaggio che, pagando uno smuggler, Lava e Susi sono entrate in Europa. “Niente barca” dicono accennando un sorriso.
È notte e stiamo camminando nel buio in un sentiero tra i boschi e i campi, che dall’ultima stazione ferroviaria sul confine croato – quella di Botovo – ci porterà fin sul confine ungherese.
Una pioggia insistente ha reso questo attraversamento oscuro ancora più insidioso.
I rifugiati che dopo essere transitati dal campo di Opatovac vengono trasferiti su pullmann alla stazione di Tovarnik – l’ultima sul confine serbo croato – arrivano alla piccola stazione di Botovo – al confine tra Ungheria e Croazia – dopo un viaggio di circa quattro ore e mezza.
Alla stazione di Botovo per questa emergenza sono previsti tre arrivi al giorno, due dei quali notturni. I rifugiati arrivano nell’oscurità più completa, non fosse per le luci angoscianti del treno che riverberano sul metallo dei binari. Una volta fatti scendere devono continuare il cammino a piedi per circa due km fino al confine ungherese, l’ultimo tratto dei quali passa all’interno di un bosco, sulla terra trasformata in fango da questi giorni di pioggia incessante.
Avvicinandosi al confine iniziamo a sentire le urla della polizia di frontiera ungherese. Intimano ai rifugiati di disporsi in due file per fare passare una a una le persone attraverso un’apertura stretta aperta sul filo spinato.
Devo salutare Lava e Susi a qualche metro dal valico. A me non è permesso oltrepassarlo. Ci scambiamo i numeri di telefono anche se il loro è scarico da giorni. “Non appena potremo ti daremo notizie”. E un ultimo abbraccio.
Solo in quel momento mi volto e mi rendo conto che dietro di noi in attesa, disposti in file di due, ci sono centianai di persone. Sotto una pioggia incessante, senza nessuna protezione, nel buio assoluto. Non sanno dove sono, c’è chi mi chiede se si è ancora in Serbia, chi pensa che il confine che stanno per oltrepassare sia quello con la Germania. Sono terrorizzati e stremati.
Tutti continuano a chiedere “dove siamo? dove ci stanno portando?”
Ahmed mi chiede se ho soldi per una chiamata alla madre a Damasco. Sono giorni che non ha sue notizie.
Quando sente la voce dall’altro capo sorride e dice solo “Va tutto bene, Mama. Va tutto bene”.
photo credit: Maria Camilla Brunetti
- Rifugiati in transito dal confine serbo croato in attesa di entrare al campo di Opatovac. Croazia. 23 settembre 2015.
- Rifugiati in transito dal confine serbo croato in attesa di entrare al campo di Opatovac. Croazia. 23 settembre 2015.
- Rifugiati al valico di Bapska sul confine serbo-croato attendono di essere trasferiti sui pullmann che li porteranno al campo di transito di Opatovac. 23 settembre 2015.
- Rifugiati al valico di Bapska sul confine serbo-croato attendono di essere trasferiti sui pullmann che li porteranno al campo di transito di Opatovac. 23 settembre 2015.
- Scarpe, oggetti e vestiti lasciati poco fuori dal campo di Opatovac. 23 settembre 2015.
- Madre e figlia afgane, in attesa di entrare al campo di transito di Opatovac.