La prima volta la vidi in collegio. Io studentessa di arabo, lei di inglese. Io svelata, lei velata. Era entrata nella sala di lettura, dove mi mettevo a fare i compiti o a tentare di inviare email, ed era accompagnata da un’amica. Quando mise la mano guantata sul petto per salutare il bibliotecario, chiedergli come stesse e annunciare il suo imminente matrimonio, capii subito che era una ragazza di buona famiglia. Dove, per buona, intendo anche mediamente ricca, mediamente benestante.
La sua abaya (il lungo vestito nero che le donne in Yemen utilizzano per coprirsi fuori di casa) era ricamata anche sulle maniche; l’hijab aveva dei fiori di simil-swaroski a incorniciare le angolature del viso. Di solito alle 10 del mattino e in collegio ci si veste in modo decoroso ma più modesto. Ci presentarono e subito si verificò quella babele tra due persone che stanno imparando una lingua e desiderano metterla in pratica avendo dinnanzi la persona giusta: lei mi faceva le domande e rispondeva in inglese, io in arabo. Iniziò così, con questa conversazione sghemba, la mia amicizia con Jamila la bella.
Nomen omen (il suo nome vuol dire appunto bella), Jamila mi parlava in ottimo inglese e, soprattutto, non vedeva l’ora di parlarlo. E così scoprii che frequentava il collegio da diversi anni, aveva appena preso il diploma e che era molto impegnata con i preparativi del suo matrimonio. Era curiosa di tutto: come viviamo in Europa, quali sono i ruoli in famiglia tra uomo e donna, a che età ci si sposa, quanti figli in media hanno le coppie. Non ragionava per schemi. Faceva domande, aspettava risposte. Aveva una voce argentina ma non garrula. Sapeva essere suadente. E, come sempre accade, quando parli a una ragazza in niqab, inizi a fantasticare su come possa avere il naso, quale possa essere il suo sorriso. Lo fai anche da donna, perché ti piacerebbe che svelasse il suo viso, così, per amicizia. Ma con Jamila ci vedevamo sempre in un contesto pubblico e, da questo punto di vista, era molto rigida: non toglieva mai il niqab, contrariamente ad altre sue compagne di collegio, che entravano con hijab coloratissimi e la bocca bene in evidenza. Di sicuro doveva avere un sorriso smagliante ed era molto allegra. Mise tutte queste qualità in mostra – sempre sotto il niqab – il giorno di cui mi invitò a partecipare al suo matrimonio. Pensai che questa sì che sarebbe stata l‘occasione, finalmente, per vedere il suo viso.
Il suo matrimonio fu il primo matrimonio yemenita a cui ho partecipato: il terzo giorno di festeggiamenti, nella sala della cerimonia, c’erano una media di 120 donne di tutte le taglie, forme, colori, fattezze. Mi trovai catapultata in una gigantesca Bollywood, dove veneri scosciatissime e provocanti danzavano come delle ossesse su una passerella, esattamente come d’estate a Ibiza si salta sui tavoli e ci si agita in preda ad una taranta a ritmo di techno. Capii subito di essere l’invitata d’onore, la “straniera”, peraltro vestita in modo totalmente inadeguato. In pantaloni e all’indiana. Uno stile inguardabile e inaccettabile, in un matrimonio yemenita.
Non potendo fare foto o video, assolutamente vietati, non avevo altra scelta, in questo contesto, che guardare, ballare, chiacchierare: in una parola, espormi, nel mio evidentissimo stato di donna libera, a una sfilza di domande improponibili su famiglia, figli, fidanzamenti, matrimoni, uomini, sesso. E così fu. Da intervistatrice passai al ruolo di intervistata sotto la lente al neon delle madri yemenite, attratte e insieme distratte dalla mia vita così inusuale, così speciale e folle per loro.
Nel bel mezzo dell’interrogatorio della questurina di turno, accadde l’epifania. “Jamila è qui”. La sposa avanzava lentissimamente, alla moviola, dal fondo della sala. L’abito era bianco e ampio, come quello di Cenerentola al ballo del principe, tempestato di pietre luccicanti, finti diamanti, perle. La mia amica appariva come una bambola, così conciata per essere unica, ammirata, invidiata e pregata da tutte le altre come una dea del talamo. Appena arrivata a una distanza utile affinché ne potessi scorgere bene le fattezze del viso, mi accorsi quanto Jamila fosse bella. Sembrava Jaqueline Kennedy. O forse era lei rediviva. Il profilo greco perfetto, la delicatezza dello chignon appena morbido sulla nuca, gli orecchini di perle a segnarle con gentilezza i lobi piccoli come patelle. Ci avevo visto giusto sotto il niqab e, di certo, ci aveva visto giusto anche suo marito, che qui dicono essere tanto brutto quanto ricco e buono.
Quel che è certo, è che Jamila è bella, troppo bella, davvero nomen omen. E così, Jamila la bella mi punta da lì, vedendo dipinta sul viso la mia sorpresa e il mio compiacimento per lo svelarsi del suo splendore. Mi allunga una rosa rossa, la prima del suo mazzo. Non comprendo il gesto, accetto, vedo intorno a me giovani donne ululanti. Poi, una ragazza vestita in oro mi rivela la simbologia: in Yemen si dice che l’amica della sposa che riceve la prima rosa del suo mazzo sarà la prossima arusa (sposa) yemenita. Anche Jamila ci aveva visto giusto, sotto il niqab.
photo credit: Laura Silvia Battaglia / Sanaa, shara Arusa (strada delle spose)