“Questi politici se ne devono andare. Stiamo dimostrando contro la loro condotta vergognosa. Non abbiamo elettricità, non abbiamo trasporti e le nostre città sono inondate di rifiuti. I politici libanesi sono degli incapaci. Vogliamo nuove elezioni. Subito. Le cose devono cambiare perché ne abbiamo avuto abbastanza”.
Rima parlava in modo pacato ma molto deciso e il bel viso sorridente dei suoi venticinque anni aveva l’ottimismo ostinato di chi sa di meritare un Paese migliore. Mi ha salutata con un abbraccio ed è corsa a raggiungere la madre che, come lei e come migliaia di persone, ieri sabato 29 agosto a Beirut era in Piazza dei Martiri.
Migliaia di persone riunite pacificamente per protestare contro l’attuale governo, chiedendo senza concessioni elezioni democratiche. Una piazza pluralista, multiconfessionale, determinata a chiedere un cambiamento immediato.
Una grande dimostrazione civile, un messaggio chiaro e potente, una piazza forte e non violenta, se si escludono alcuni scontri avvenuti solo in tarda serata tra un gruppo circoscritto di manifestanti e le forze dell’ordine, che ha portato all’arresto di 19 persone.
Ma a Beirut si protesta da settimane.
Proviamo a fare un passo indietro, per cercare di capire come si è arrivati alla grande manifestazione di ieri e come si sono svolte le tappe di questo movimento che sta scuotendo dalle fondamenta la società libanese.
Tutto è iniziato in reazione alla mancata raccolta dei rifuiti nella capitale e nelle aree limitrofe. Da quando il 17 luglio è stata chiusa la controversa discarica di Naameh in cui, dal 1998, erano depositate tonnellate di rifiuti. A causa dell’assoluta incapacità del governo di organizzare l’emergenza, Beirut si è ritrovata per settimane sommersa da tonnellate di rifiuti, lasciati marcire sotto il sole asfissiante, in una condizione di emergenza sanitaria assoluta.
#YouStink, VOI PUZZATE, è l’hastag sotto il quale si racchiude il movimento di protesta civile nato in reazione a questo stallo politico e primo organizzatore delle manifestazioni di queste settimane.
In aggiunta a questa emergenza ambientale il governo libanese, spesso paralizzato per l’incapacità di trovare un accordo tra le 18 confessioni riconosciute nel Paese, da più di un anno non è in grado di eleggere un Presidente che succeda a Michel Suleiman ma ha ugualmente esteso il suo mandato fino al 2017 con un’azione considerata anti-costituzionale. La guerra in Siria – senza spettro di una fine possibile – ha ulteriormente radicalizzato le dinamiche confessionali libanesi e l’afflusso di più di un milione di profughi dal 2011 a oggi ha reso le già precarie strutture interne del Paese ancora più lacunose.
Con il passare delle settimane, il persistere dell’emergenza sanitaria in aggiunta all’endemica mancanza di elettricità e alla penuria d’acqua, ha portato la protesta ad assumere dimensioni sempre più significative.
Mercoledì 26 agosto poco dopo le otto di sera, come quasi ogni giorno, ero in piazza Riad El Solh, a Downtown Beirut, dove si raccolgono i manifestanti in queste settimane. Seduta su un muretto fumavo una sigaretta con Assaad Thebian, 27 anni, uno dei fondatori e dei portavoce della campagna #You Stink.
“Quello che chiediamo è che le forze dell’ordine responsabili di un uso illegittimo di violenza vengano legalmente perseguite” mi diceva “chiediamo le dimissioni del Ministro dell’Ambiente Mohammad Machnouk e nuove elezioni democratiche. Continueremo a manifestare fino a quando non l’avremo ottenuto”.
I primi duri scontri tra manifestanti e forze dell’ordine hanno avuto luogo durante le proteste di sabato 22 agosto. Viene fatto ampio uso di lacrimogeni e carri idranti e ci sono diversi feriti.
Il giorno dopo, domenica 23 agosto, viene indetta una nuova grande manifestazione. Fissata per le 18 sempre a Piazza Riad El Solh, a pochi passi dal Grand Serrail sede del governo libanese, protetto da cordoni di forze dell’ordine e filo spinato.
Migliaia di manifestanti. Ancora una volta una piazza composita e multiconfessionale.
Ma proprio perché le componenti di questa piazza sono molteplici, bisogna fare attenzione se si vuole cercare di comprendere cosa sta accadendo in questi giorni a Beirut. Come sempre – nella società libanese regolata da affiliazioni confessionali – tutto è molto più complesso di quanto sembri. Il rischio reale è che un movimento di protesta nato su basi civili possa venire “strumentalizzato” per strategie politiche giocate su una scacchiera molto più ampia.
In piazza i manifestanti chiedono senza alternative la caduta del governo e nuove elezioni democratiche, intonando i canti della Thawra (la Rivoluzione), gli stessi delle rivoluzioni arabe del 2011.
“Il popolo vuole la caduta del regime”, scandiscono quasi senza sosta.
Ma il Libano è un Paese molto diverso dall’Egitto, dalla Tunisia e dalla Siria. In Libano ogni aspetto della vita politica e sociale risponde a un sistema confessionale.
Ricordo le prime ore del pomeriggio di domenica 23 agosto, l’atmosfera era gioiosa e la dimostrazione pacifica. Solo intorno alle 19, con il calare del sole, lo scenario si é radicalizzato uscendo completamente dal controllo degli organizzatori.
Eravamo lì a un passo dal filo spinato che divideva i manifestanti dalle forze dell’ordine. Siamo stati investiti più e più volte dagli idranti e dai gas lacrimogeni. Ci siamo dovuti riparare a più riprese in una piazza trasformata in un campo aperto di battaglia, guerriglia pura. A mezzanotte, quando la gran parte del movimento era stata già stata dispersa, ciò che rimaneva di Riad El Solh era una no mans’ land devastata. L’ultima immagine che ho di quella notte è Downtown Beirut in fiamme.
Cordoni di fuoco in Place des Martirs a pochi metri dalla Moschea Al-Amin. Cariche di carriarmati fino a lambire Chez Paul, l’elegante ristorante all’inizio di Rue Gurout, alle porte di Gemmayze, il cuore di Beirut Est. La manifestazione di domenica 23 agosto conterà più di quattrocento feriti di cui uno in condizioni estreme.
In un comunicato di venerdì 28 agosto Human Rights Watch condanna apertamente l’uso eccessivo di violenza da parte delle forze dell’ordine contro i manifestanti, chiedendo indagini trasparenti ed effettive
Avevo chiesto ad Assaad cosa pensasse degli scontri.
“C’è un tentativo politico di dividere la manifestazione mettendoci gli uni contro gli altri su base confessionale. Noi rifiutiamo questo gioco. Il nostro è un movimento di protesta civile e democratico e tale rimarrà”.
La piazza di ieri, per ora, gli ha dato ragione.
Nel frattempo a Ras el Nabah, il quartiere misto nel quale vivo, a un passo da Rue de Damas (la linea di demarcazione che negli anni della Guerra civile divideva Beirut Est da Beirut Ovest), il taglio di elettricità continuava da 24 ore consecutive, l’afflusso d’acqua era pressoché inesistente e nelle strade le montagne di rifiuti continuano ad aumentare.
A noi non resta che rimanere qui. Per cercare di capire come evolverà la situazione e se davvero le proteste di queste ultime settimane daranno un nuovo volto al Paese.
photo credit: Lorenzo Tugnoli