Non è facile per me recensire un libro come La notte di Silvia (Castelvecchi), di Stefania Parmeggiani, giornalista di Repubblica. Non è facile perché il libro affronta con grande profondità di analisi – di documentazione processuale e storica – un luogo e un tempo che, per dettagli puramente casuali, mi sono molto vicini. Il romanzo indaga un episodio di cronaca nera che ha avuto luogo nel 1999 a Riccione, il paese in cui – così come l’autrice – sono cresciuta e che, all’incirca negli anni in cui il libro è ambientato, mi apprestavo a lasciare per inziare l’università. Affronta, La notte di Silvia, un preciso momento storico, gli anni Novanta, che coincisero con la prima vera grande ondata di profughi avvenuta in Italia. Centinaia di migliaia di persone che, subito dopo il crollo del blocco sovietico, arrivavano da Est, e soprattutto dall’Albania, sulle coste adriatiche. L’Italia, per la prima volta, da Paese di emigrazione quale è sempre stato, si scopriva essere paese di immigrazione; una nuova terra promessa. Non erano più gli italiani a emigrare a centinaia di migliaia, a lasciare il loro paese e le loro case in cerca di un futuro migliore, ma erano altri uomini, altre donne, che fuggendo guerre e destabilizzazioni cercavano in Italia una possibilità per ricominciare. Quelle navi stracolme di persone, che dai porti di Valona e di Durazzo arrivavano a quelli di Bari e di Brindisi entravano nel nostro immaginario come una scure. Impossibili da dimenticare. L’accaduto dal quale La notte di Silvia muove è il ritrovamento, sull’autostrada adriatica A14, tra il casello di Riccione e quello di Cattolica, del corpo senza vita di una giovane donna albanese. Chi è Silvia? Perché, in un’alba piovosa del 2 gennaio del 1999, quando ancora i paesi della Riviera romagnola sono stravolti dai festeggiamenti di Capodanno, il suo corpo senza vita viene trovato accucciato su una scarpata d’autostrada? Chi c’era con lei quella notte? Stefania Parmeggiani ricostruisce, con perizia di fonti, la storia di una ragazza vittima di un gioco molto più grande di lei, e di un tempo troppo violento. Restituisce, indagando la sua vicenda personale, un affresco che porta alla luce le connessioni tra le cosche calabresi che negli anni Novanta si spartivano la Lombardia e i fiumi di droga che dalla periferia di Milano arrivavano sui tavoli dei club della Riviera romagnola. La notte di Silvia denuncia la tratta delle bianche, i rapimenti, il racket attraverso il quale migliaia di ragazze – poco più che adolescenti – dall’Albania furono portate in Italia.
Mi ricordo bene quegli anni in Riviera. Mi ricordo quanto fosse facile, anche per noi ragazzini, avvicinare qualsiasi tipo di sostanza stupefacente. Ce ne era ovunque, come difficilmente ho visto poi nella mia vita. Mi ricordo quei giorni a Riccione, quando migliaia di ragazzi da tutta Italia affollavano i viali del centro, che portano al mare. Notti infinite e troppo lunghe per i nostri giovani anni. Per noi, adolescenti nemmeno provinciali, quel mondo caleidoscopico e allucinatorio, bellissimo e pericoloso, era semplicemnte la realtà. Non credo ce ne rendissimo conto fino in fondo. Lo avremmo capito solo molto tempo dopo, allontanandoci da quei luoghi.
E mi ricordo bene anche come, da un momento all’altro, i marciapiedi della Statale Adriatica, i club priveè, i locali, iniziarono a riempirsi di ragazze giovanissime che venivano dall’Est, come si diceva. Noi non ne avevamo mai viste, fino a quel momento. Noi, che a fine anni Novanta avevamo sedici, diciassette anni, le guardavamo – nostre coetanee – e per la prima volta scoprivamo, testimoni diretti, che cosa fosse la schiavitù.
Stefania, da dove viene l’idea di parlare della storia di Silvia? Quando hai iniziato a pensare e a lavorare a questo romanzo?
Una mattina di gennaio del 1999 mentre facevo colazione al bar vidi sulle pagine di un quotidiano locale la foto di Silvia. Non avevo mai visto quella ragazza, ma era chiaro che qualcuno l’avesse condannata a morte: un solo colpo alla testa, un’esecuzione a sangue freddo. Avevo tre anni più di lei e mi resi conto per la prima volta che la realtà in cui vivevo non era normale: in quegli anni la Riviera Romagnola era un lunapark dove si viaggiava a velocità folle. Nessuno aveva occupato militarmente il territorio, ma in tanti erano arrivati per fare affari. Quattordici anni dopo, quando decisi di scrivere un libro, mi tornò alla mente quella foto: era molto più che il ritratto di una vittima, era uno specchio degli anni Novanta, gettava le sue ombre fino al presente. Raccontava le infiltrazioni mafiose nel nord Italia, il traffico internazionale di stupefacenti, la fine del Comunismo in una terra che per anni era stata un buco nero nella cartina d’Europa, la tratta di esseri umani, lo sfruttamento della prostituzione, le condizioni delle nostre carceri, la miopia delle politiche di accoglienza.
Ne La notte di Silvia, ricostruisci il caso giudiziario con grande attenzione e profondità di fonti. Come hai organizzato la ricerca che è alla base del libro?
La prima parte è stato puro mestiere: sono una cronista, per anni mi sono occupata di nera e giudiziaria. Ho studiato le carte dei processi, le deposizioni dei testimoni, il memoriale di uno degli assassini, ho letto le cronache di quei giorni, degli omicidi al centro della storia, ma anche delle rapine che li avevano preceduti, le inchieste e i reportage sulle infiltrazioni mafiose nel nord Italia, le relazioni delle commissioni anti mafia… Ho parlato con alcune persone, testimoni diretti o indiretti di quei fatti. E ho fatto una ricerca più o meno simile, con altre fonti, sugli ultimi anni del comunismo in Albania, sulla guerra civile del 1997 e sulle prime ondate migratorie.
Il romanzo è anche la storia d’amore tra Alex e Silvia, due ragazzi che si riconoscono nelle ferrite reciproche, nell’emarginazione dalla società “normale”. Poco piu che adolescenti, vivono in un mondo parallelo, di clandestinità, e in quel mondo si perdono. Gli umiliati e gli offesi. Come hai trovato la voce di Alex?
La prima stesura del libro era “giornalistica”, mi ero limitata ai fatti, facendo attenzione che ogni parola avesse un riscontro negli atti delle inchieste. Poi mi sono accorta che i fatti non erano sufficienti: non riuscivano a spiegare perché le persone coinvolte avessero fatto sempre la scelta sbagliata. Ho iniziato a interrogarmi sugli stati d’animo dei protagonisti, sulle condizioni psicologiche che avevano governato le loro azioni. A ogni domanda si accompagnava una nuova ricerca: i rischi dell’invisibilità, gli effetti dell’abuso prolungato di cocaina, della violenza, dell’emarginazione sociale… La voce di Alex è nata da questa presa di distanza dai fatti: paradossalmente più mi liberavo della cronaca più riuscivo a immergermi nella nebbia che aveva avvolto le sue scelte, più capivo il suo desiderio di normalità, la fame di amore che lo aveva reso rabbioso, il legame profondo anche se malato con cui aveva legato la sua esistenza a quella di Silvia. Alla fine l’ho sentito parlare.
La narrazione è molto complessa, soprattutto dal punto di vista della ricostruzione storica. Se da un lato affronta lo sviluppo delle cosche ‘Ndranghetiste che si spartivano la Lombardia negli anni Novanta, dall’altro porta alla luce anche le collusioni tra quel mondo e il racket della tratta delle bianche dai Paesi dell’Est, al crollo del blocco sovietico. Come, e se, è cambiata l’Italia in questi quasi vent’anni? Io, personalmente, ho trovato il romanzo di una contemporaneità esemplare…
La storia criminale di oggi è figlia di quella degli anni Novanta: chi oggi controlla il mercato dello spaccio ha occupato un vuoto lasciato da altri o ha semplicemente preso in mano le redini dell’azienda di famiglia. E anche quando sono cambiati i protagonisti le dinamiche sono rimaste identiche. La crisi economica permette alla criminalità di infiltrarsi nel tessuto sano e di controllare i più deboli. Il carcere spesso non riabilita ma spinge ancora più a fondo, il pregiudizio per cui “la mafia al nord non esiste” per anni ha fatto ignorare o sottovalutare determinati fenomeni, la paura dell’altro, i discorsi sui “barbari invasori” che sempre accompagnano i migranti non fanno che erigere muri e spingere le persone nell’invisibilità dove diventare vittime o criminali è fin troppo facile. Questo era vero vent’anni fa, ma è vero anche oggi.
Era il 1991, l’8 agosto, quando una nave con 20mila migranti a bordo salpò dal porto di Durazzo per arrivare a quello di Bari. L’Italia si svegliava quel giorno trasformata da terra di emigranti a terra promessa. In venticinque anni il Mediterraneo è diventato una tomba muta di orrori. Argomento quanto mai tragico in questi mesi di sbarchi e morti annunciate e ripetute. Qual è la ua opinione sulle politiche europee in materia di flussi migratori?
Dal 1991 a oggi i flussi migratori sono stati gestiti come una emergenza. E le risposte emergenziali sono sempre incomplete. Non si è mai discusso seriamente, si sono rafforzate le frontiere e si è creato un sistema di controlli così complicato da diventare una trappola, l’ennesima per chi fugge da guerre, persecuzioni o carestie. L’Europa ha lasciato i paesi di prima frontiera, come la Spagna, l’Italia o la Grecia, soli di fronte al peso di una accoglienza impossibile. In alcuni momenti si è cercato l’aiuto dei paesi di seconda frontiera come la Libia o il Marocco, finendo con l’affidare a loro “il lavoro sporco”. Si sono costruiti muri, centri di accoglienza e di identificazione che in realtà sono centri di detenzione. Tutti i tentativi di frenare i traffici criminali sono stati insoddisfacenti. Senza contare le colpe, gravissime, di cui si sono macchiati i governi respingendo uomini, donne e anche minori, limitando i soccorsi a una fascia di mare sempre più esigua, allungando i tempi per le richieste d’asilo o solo distogliendo lo sguardo. I naufragi non sono altro che la testimonianza più drammatica del fallimento dell’Europa nella gestione dei flussi migratori.