Tripoli. Libano, 9 giugno 2015
A Tripoli, 70 km a nord di Beirut e seconda città del Libano, era il giorno dell’avant-première di Love and War on the rooftop. A Tripolitanian tale, spettacolo teatrale nel quale ragazzi di Bab el Tebbaneh e Jabal Mohsen avrebbero recitato insieme una riscrittura di Romeo e Giulietta di William Shakespeare. Bab el Tebbaneh, roccaforte sunnita che appoggia la rivolta siriana e Jabal Mohsen, enclave alauita che invece sostiene la politica di Assad in Siria – quartieri divisi geograficamente solo da una strada, Syria street – sono in guerra aperta violentissima tra loro fin dalla guerra civile libanese.
Attori poco più che adolescenti che fino a qualche mese prima combattevano come miliziani sulle prime linee dei loro rispettivi quartieri, – aiutati in questo viaggio all’interno delle loro vite dall’Ong March e dal regista e direttore Lucien Bourjeily – quella sera di inizio giugno erano insieme e uniti sul palco.
Dei quasi 600 posti del Rawda Theater non una sola sedia era libera: gli abitanti dei due quartieri erano seduti gli uni vicini agli altri per assistere un evento unico nella loro storia; un viaggio di allontanamento dalla violenza e un primo, enorme, passo verso un cammino di riconciliazione.
Lunedì 15 giugno lo spettacolo ha debuttato nel più importante teatro di Beirut, il Madina, portando in scena il Libano che vorremmo sempre vedere.
Abbiamo parlato di questo progetto con il regista Lucien Bourjeily.
Da dove viene la decisione di affrontare un tema così delicato, come il racconto della realtà di due quartieri di Tripoli – Jabal Mohsen e Bab el Tebbaneh – in guerra tra loro e che vivono una delle realtà più complesse del Libano?
In Libano non è mai avvenuto un reale processo di riconciliazione tra le differenti confessioni dalla fine della guerra civile. Il sistema di giustizia ha fallito nei confronti dei cittadini. Anche oggi, metà del parlamento libanese, è formato da persone coinvolte in ciò che è accaduto durante la guerra civile. Politici che continuano a volere dividere le persone e a governarle secondo le logiche di sempre perché sanno che il solo modo per tenerle sotto il loro potere è continuare a fare credere alle persone che possono essere governate solo in questo modo. È una forma di pensiero e di politica molto machiavellica e credo che tutti i politici libanesi abbiano letto Machiavelli. Questo si può vedere anche dalla loro manipolazione, quotidiana, dell’opinione pubblica. È un argomento estremamente delicato. Ancora oggi le persone non si fidano di chi appartiene ad altre confessioni perché sono spinte da una certa prassi politica a pensare che gli altri siano, in qualche modo, diversi. I nemici.
Io ho sempre lavorato con un approccio secolare. Non ho mai pensato a quale confessione appartenessero i miei colleghi o le persone con le quali interagivo. Non mi è mai capitato di porre la famosa domanda libanese “Da dove vieni”? Per me è un argomento particolarmente importante perché sento che c’è ancora molto sospetto, molta mancanza di fiducia e molte bugie nel Libano contemporaneo. Bugie che spingono i cittadini a credere che non sia possibile avere fiducia reciproca e che l’unico patto a cui si possa arrivare sia attraverso politici corrotti. Questo spettacolo testimonia esattamente il contrario. Lavorando a questo progetto, i ragazzi, hanno iniziato ad accorgersi più chiaramente di queste dinamiche. Erano cose di cui già avevano percezione, si sentivano già traditi dai politici e da chi li ha sempre manovrati. Si sono resi conto di essere i primi e i soli a pagare in prima persona per questi conflitti, con la morte, la prigione, etc. Sicuramente non sono i politici che li manipolano ad andare in prigione. La guerra tra Bab el Tebbeneh e Jabal Mohsen funziona con le logiche di ogni altra guerra.
Come sei riuscito a entrare in contatto con le due comunità, a spiegare l’idea che avevi in mente, ad andare in profondità a questo tipo di percorso?
Come prima cosa abbiamo collaborato con due Ong che lavorano da tempo nei due quartieri. Associazioni che erano già in contatto con i ragazzi, che lavorano da tempo sul campo e che sono state la nostra via d’accesso alle due comunità. Poi abbiamo fatto dei veri e propri casting. Cercavamo persone che fossero state coinvolte direttamente nei combattimenti, che avessero un’esperienza diretta di questo conflitto o che avessero perso qualcuno durante gli scontri, familiari, amici, etc. Tutti quelli che sono arrivati nella stanza in cui si sarebbero fatte le prove in realtà all’inizio non volevano essere in quel luogo perché tutti vivevano con l’idea preconcetta che l’altro fosse il nemico. Il processo con cui si entra in un lavoro di questo tipo credo possa essere paragonabile al viaggio dell’eroe. L’eroe parte da un punto e alla fine del percorso – alla fine del viaggio – è una persona diversa. È avvenuta una trasformazione. Il viaggio che questi ragazzi hanno affrontato dal primo giorno in cui sono arrivati alle prove fino al giorno dello spettacolo che tu hai visto a Tripoli li ha trasformati in persone nuove. Tutto questo era inimmaginabile per loro. Invece non solo è stato possibile ma è diventato realtà. Questa realtà è una visione. Un’immagine di questa forza, speriamo, possa avere un effetto domino e coinvolgere tutti.
Hai avuto contatti con le famiglie dei ragazzi che hanno partecipato?
Credo che la cosa davvero importante del giorno in cui anche tu eri a Tripoli, per la avant-première dello spettacolo, siano state le quasi 600 persone in sala. Erano tutti di Bab el Tebbeneh o Jabal Mohsen. Ed erano nella stessa sala, senza distinzioni di posti in platea, erano insieme gli uni agli altri. Così come insieme erano gli attori sul palco. Hanno riso per le stesse battute, reagito nello stesso modo agli stessi scherzi sul palco, si sono entusiasmate per gli stessi passaggi. Questo ha fatto loro sentire realmente un’unità in platea, gli ha fatto capire che hanno gli stessi valori, che hanno moltissime cose in comune, gli stessi interessi, le stesse battute che li fanno ridere. E questo suono comune può rivelare molto più di tante parole dette. Un messaggio di unione può essere propagato semplicemente dal suono di un’intera sala che applaude all’unisono.
Come è stata accolta l’idea del progetto nelle due comunità?
Vedere in scena la loro vita quotidiana li ha fatti riflettere sulla loro condizione e su loro stessi. Perché alla fine loro sono i primi a essere stanchi di questa guerra, dalla quale non hanno mai tratto alcun profitto. Gli unici che hanno tratto beneficio da questo conflitto sono i signori della guerra locali che arruolano questi ragazzi per farli combattere. Alcuni dei ragazzi che hanno scelto di partecipare a questo progetto hanno subito intimidazioni da persone che non trarrebbero beneficio da un processo di riconciliazione. I primi giorni di prove ovviamente tutti erano molto tesi ma appena hanno iniziato a interagire tra loro si è immediatamente instaurato un rapporto che li ha portati a diventare, alla fine, più amici di quanto lo fossero con le persone con le quali erano venuti alle prove. Il teatro è il luogo in cui queste cose possono avverarsi. Uno spazio comune in cui sia possibile fare il primo passo gli uni verso gli altri.
Osservare le reazioni del pubblico in sala, a Tripoli, sapendo la loro provenienza è stata una cosa molto forte. Erano totalmente coinvolti da ciò che stava succedendo sul palco.
Sì, infatti stiamo pensando di fare altre repliche a Tripoli. Di portarlo in scena ancora e ancora, in diversi luoghi della città, in modo che il maggior numero di persone possa venire a contatto con questo progetto. Perché credo davvero possa avere un grande impatto sulle persone, sugli abitanti di Tripoli, venire a contatto con il lavoro di questi ragazzi, vedere quello che hanno fatto, capire come sia possibile vedersi e vederli in un altro modo. E vogliamo rimetterlo in scena anche a Beirut. Perché anche nei sobborghi di Beirut ci sono le stesse dinamiche che si possono trovare a Bab el Tebbeneh o a Jabal Mohsen. Perché è a Tripoli e a Beirut dove scontri di questo tipo avvengono con più frequenza. Sono le persone che devono cambiare. Non ha alcun senso aspettare un cambiamento da parte di politici che non hanno nessun interesse a che la situazione cambi o migliori. Perché è esattamente questa divisione in confessioni che li ha portati nei posti che ora occupano in politica. E qui ci ricolleghiamo anche al discorso della censura. Sai che questo spettacolo è stato censurato? Ci hanno chiesto di cambiare due pagine della sceneggiatura. Io non ho accettato tutti i cambiamenti che ci hanno imposto. Ho avuto lunghe discussioni con l’ufficio censura e alla fine siamo riusciti sa ridurre della metà le cose che volevano eliminare. Purtroppo viviamo ancora in un Paese in cui parlare di certe cose è un tabù. Parlare di guerra civile è un tabù. Non abbiamo un libro di storia comune che affronti cosa è successo nei quindici anni di brutale guerra civile perché nessuno vuole che gli si ricordi che ci sono state milizie, da una parte e dall’altra, che uccidevano persone solo in base alla loro appartenenza confessionale. Non c’è mai stato un processo ai responsabili di questi crimini perché alla fine della guerra civile ci fu un’amnistia generale quindi le persone che si macchiarono di questi fatti sono rimaste impunite. E questo è il motivo per cui il Paese non riesce a fare un passo avanti e rimane bloccato nelle stesse identiche dinamiche della guerra civile. Questi ragazzi a Bab el Tebbaneh e Jabal Mohsen davvero meritano qualcosa di meglio: una vita migliore, quartieri migliori, strade migliori, elettricità, acqua, istruzione, perché se è vero che appartengono e sono cittadini di uno Stato, allora lo stato deve prendersi carico di loro, garantirgli quei servizi che non hanno mai avuto.
Come si svilupperà ora il progetto?
La cosa che sicuramente vogliamo fare e portarlo in scena ancora, fare più e più repliche, e questo dipende anche dai fondi che riusciremo a trovare. Cercando davvero di creare un effetto domino in più persone possibili. Fare ridere per le stesse cose il maggior numero di persone possibili può avere un effetto catartico. Per questo forse, inizieremo una campagna di crawdfunding indirizzata alle persone che credono in questo tipo di progetti e che vorrebbero sostenerli. Lo stato sicuramente non sopporterebbe progetti di questo tipo. In Libano non c’è alcun sostegno per l’arte, nessun aiuto.
Che tipo di accoglienza ha avuto lo spettacolo durante la première a Beirut?
Quello che ho sentito al Teatro Madina, è stato una vera partecipazione da parte del pubblico. Non c’era un solo posto libero e c’erano persone in fila fuori. Le persone vogliono e devono vedere questo spettacolo che testimonia l’esatto contrario di ciò che i leader politici vogliono farci credere. C’erano molte cariche ufficiali in sala. Ecco, per una volta erano questi ragazzi ad avere voce. Erano loro nella posizione di parlare di dire qualcosa a questi politici. Le persone devono essere dentro quella sala e vedere con i loro occhi quello che succede. Perché così come c’è stata una standing ovation a Tripoli e a Beirut, così sarà ovunque, in qualsiasi altro posto verrà portato in scena lo spettacolo. Quando le persone capiscono da dove vengono questi meravigliosi ragazzi e quello che hanno avuto il coraggio di fare non possono rimanere indifferenti. Quello che hanno fatto questi ragazzi è estremamente coraggioso. Immagina di avere vissuto per tutta la vita in un clima di conflitto, in cui ti veniva detto che gli abitanti del quartiere vicino erano i tuoi nemici, avere perso negli scontri familiari, amici, avere combattuto tu stesso e poi scegliere di intraprendere un cammino di questo tipo, un cammino inverso a quello della violenza. È un gesto di coraggio meraviglioso, salire sul palco, mano nella mano a quelli che fino al giorno prima eri abituato a considerare i nemici e mostrare al mondo che per te è una cosa giusta essere insieme, essere uniti. In Libano abbiamo bisogno di iniziative di questo tipo, abbiamo bisogno di momenti così. Solo essendo uniti potremo avere un Paese migliore. Non dobbiamo rovinare questa possibilità. Le nostre differenze sono un’illusione.
Ho sentito in un’intervista rilasciata da due attori, uno proveniente da Bab el Tebbaneh e l’altro da Jabal Mohsen che vorrebbero aprire uno spazio insieme a Tripoli, un luogo in cui le persone provenienti dai due quartieri possano finalmente incontrarsi. È così?
Sì, è così. È quello che hanno detto. Vorrebbero creare uno spazio comune sulla frontline. Su Syria street. C’è un passaggio nello spettacolo in cui gli attori si chiedono “dove potremmo incontrarci, se non in prigione?”. Perché questa è la realtà, pur vivendo in quartieri confinanti, l’unico luogo in cui gli abitanti dei due quartieri si incontrano fisicamente è la prigione. Davvero non c’è alcun luogo comune, non sicuramente uno spazio neutro, in cui abitanti di questi due quartieri possano incontrarsi. Allora i due attori hanno pensato “perché non creiamo noi questo spazio?”. Spero davvero possano riuscirci e farò qualsiasi cosa per aiutarli. Sarebbe straordinario.
photo credit: Lucien Bourjeily Love and War on the rooftop. A Tripolitanian tale,