Lo incontro al Lina’s cafè, a downtown Beirut. È una mattina di sole, e per la prima volta mi sembra che downtown si stia lentamente rianimando, non provo più quell’oppressione che solitamente mi provoca il centro ricostruito di Beirut: una sorta di luogo fantasma, non veramente abitato o vissuto dai beirutini. Con i negozi dei marchi di moda occidentali, le sedi delle grandi banche, i gioiellieri. In questa mattina di sole sul finire di maggio, Beirut è già nel pieno della sua estate.
Jabbour Douhaihy, è seduto a uno dei tavolini all’interno. Iniziamo una lunga chiacchierata che ci accompagnerà per tutta la mattina. Nei suoi romanzi, editi in Italia da Feltrinelli nella traduzione di Elisabetta Bartuli, l’intellettuale libanese nato nel 1949 nel villaggio di Zgharta nel Libano settentrionale, affronta a più riprese il centro nevralgico dell’appartenenza identitaria, concetto quanto mai esposto nella storia del Libano moderno e contemporaneo. Una storia mendace, complessa e tragica – l’appartenenza – in un paese di poco più di quattro milioni di abitanti composto da diciotto confessioni, luogo di diaspore e di transiti, memorie e presente di rifugiati, quindici anni di violentissimo conflitto civile e un equilibrio molto fragile sul crinale del quale camminare diviene una forma di talento e di mestiere.
Affrontiamo i temi dei suoi romanzi partendo da San Giorgio guardava altrove (Feltrinelli, 2012. Entrato nella cinquina del Premio della letteratura araba del 2012 e vincitore del Premio della giovane letteratura araba del 2013) in cui Douaihy racconta la storia Nizam Al Alamy, nato in una famiglia sunnita di Tripoli e poi “adottato” da una famiglia cristiano-maronita originaria di un piccolo villaggio del nord del Libano: il suo universo interiore, il suo senso di inadeguatezza e estraneità a pratiche settarie che infestano la sua realtà, la sua lotta per essere solo un giovane uomo innamorato, svincolato da pratiche di appartenenza confessionale. La sua vita quotidiana in un Paese che sprofonda giorno dopo giorno in un conflitto fratricida, la sua emancipazione di studente universitario nella Beirut cosmopolita alla vigilia dello scoppio della guerra civile che si trova improvvisamente divisa in Est a prevalenza e controllata dai cristiani e Ovest controllata da milizie musulmane. Chi è Nizam? È un musulmano? È un cristiano? È possibile per una persona come lui vivere nella Beirut di quegli anni?
Discutiamo a lungo di Pioggia di giugno (Feltrinelli, 2010. Finalista al Premio della letteratura araba del 2008) dove l’autore, ricostruendo in una polifonia di voci i fatti relativi al massacro di Meziara del 1957, indaga uno dei prodromi della guerra civile che da lì a diciotto anni insanguinerà il Libano: il conflitto tra due grandi famiglie cristiano-maronite originare di villaggi al nord del Paese.
Gli chiedo anche del suo ultimo romanzo Il quartiere americano (Hayy El Amerkan, 2014), edito in arabo da Dar al Saqi, a breve in uscita in francese per Actes Sud, la casa editrice che pubblica tutti i libri di Douaihy in Francia, con la speranza di vederlo presto tradotto anche in italiano.
La memoria, l’individuo al cospetto della Storia, il presente di un Paese e di una regione che sta affrontato un’epoca tra le più complesse del suo passato recente, attraverso lo sguardo di un raffinato interprete della contemporaneità.
Intervista a Jabbour Douhaihy
Come è nato il personaggio di Nizam, protagonista di San Giorgio guardava altrove?
Nizam è un personaggio che mi è familiare. Conosco una persona reale che ha un po’ questa storia, questo profilo. Nato in una famiglia musulmana è poi stato – diciamo – “adottato” in maniera non ufficiale da una famiglia cristiana. Ci sono dei casi in Libano, anche se non numerosi, di persone i genitori dei quali appartengono a due confessioni diverse, figli di matrimoni in cui la madre è cristiana e il padre è musulmano o viceversa. E nel caso specifico della persona che mi ha ispirato il personaggio di Nizam portava in sé chiaramente una dualità. Ho pensato che la sua fosse una condizione significativa, che avesse in sé qualcosa di rilevante. Così ho iniziato a rifletterci, pensando alle voci dei giovani della sua generazione, alla sua esperienza, alla guerra, alle sue due famiglie. E mi sono chiesto quale potesse essere il destino di una persona con questa storia allo scoppio della guerra civile in Libano, a Beirut, in una città completamente divisa. La geografia della città separata. Una storia con molteplici messaggi. Quello che amo in questo romanzo è il modo del racconto. È la storia. La storia di un villaggio di montagna nel nord del Libano, di una città alla vigilia dello scoppio della guerra, e poi è anche a storia degli oggetti, che in realtà è quello che amo più raccontare. La storia degli oggetti insieme a quella delle persone. È così che ho scritto questo romanzo, molto ampio anche per numero di pagine. Dovevo affrontare due periodi storici, il prima del conflitto e il mentre.
In San Giorgio guardava altrove è molto ben descritta l’atmosfera di un gruppo di giovani studenti di sinistra alla vigilia dello scoppio della guerra civile libanese. Ventenni che credevano in ideali secolari e vivevano i fermenti che animavano allo stesso modo i loro coetanei delle capitali europee e americane. Giovani che si incontravano per discutere in un grande appartamento di Beiurt Ovest di proprietà di una russa bianca. Studenti diversi per appartenenza religiosa, background familiare e livello sociale ma uniti dagli stessi ideali politici, dagli stessi sogni sulla società nuova che speravano di potere realizzare. Cos’è rimasto, nel Libano contemporaneo, dell’esperienza di quei giovani?
Il gruppo che ho descritto nel romanzo, al quale io stesso sono appartenuto al tempo, credo non esista più. Non esiste più come sguardo sull’avvenire, come possibilità attuale. Forse quel tipo di afflato si è trasformato oggi – in una città come Beirut – in una forza creatrice all’interno di uno spazio culturale, artistico, dove continuano a vivere desideri di libertà, di uguaglianza. A livello politico invece la scena è stata totalmente infestata da correnti di confessionalismo religioso, dove persone di ambienti, confessioni, e storie familiari differenti, che credevano in ideali di secolarismo, non hanno più trovato un loro spazio. La guerra, anzi, li ha completamente spazzati via, ricacciandoli nei loro rispettivi luoghi di provenienza o esiliandoli.
A suo avviso c’è ancora speranza nella Regione per società democratiche o secolari?
Il momento è tragico per una domanda di questo tipo. Cosa posso dire? Sarebbe possibile – forse – in linea teorica, ma gli avvenimenti stanno prendendo un’allure talmente regressiva che davvero non so cosa dire.
In Pioggia di giugno indaga i fatti relativi al massacro avvenuto nel 1957 all’interno della chiesa di Meziara, un piccolo villaggio cristiano del nord del Libano. La struttura narrativa del romanzo è molto complessa, costruita da una polifonia di voci e visioni che vanno a comporre le molteplici versioni che negli anni si sono susseguite su ciò che realmente accadde quel giorno. Come nasce l’idea del romanzo e come ha sviluppato la costruzione narrativa? Quando si affronta la memoria di un conflitto civile la “verità” diventa un concetto quanto mai labile. Come ha affrontato il lavoro di ricostruzione degli eventi?
Nel romanzo ci troviamo davanti a un fatto storico. Due grandi famiglie cristiane entrano in conflitto armato tra loro. Alcuni affiliati e appartenenti di queste due famiglie si uccidono dentro a una chiesa. È un avvenimento che conosco bene, che ho vissuto personalmente, che ho sentito raccontare fin da quando ero bambino. Abbiamo passato tutta la vita a ri-raccontare i racconti che ci erano stati fatti, cercando di mettere insieme tutte le piccole versioni che si avevano di quanto accaduto. E poi gli amici, soprattutto Samir Kassir, mi hanno detto che avevo tra le mani una storia che doveva essere raccontata. “Tu hai una storia che deve essere raccontata” mi disse Samir. Perché quello che è scritto in questo romanzo può essere letto come il prodromo della guerra, ossia la guerra civile libanese prima dello scoppio della guerra. Credo che le opere d’arte abbiano una finalità in loro stesse. Non c’è nient’altro. Abbiamo un pretesto, delle storie che mettiamo insieme, ma tutto – in un romanzo – è nel modo in cui si racconta. Tutto è nello sguardo. Mi sono detto: ancora una volta ci troviamo davanti a una violenza medio-orientale, persone che si uccidono l’un l’altra, cugini che si uccidono tra loro. Cose che continuano a succedere. Da noi i cugini si uccidono, le persone della stessa città, dello stesso villaggio, si uccidono tra loro. Voglio cercare di liberarmi di questo peso raccontando – mi sono detto – raccontando le persone, più che le azioni stesse. Ho fatto delle interviste, delle ricerche, certo, ma in primo luogo avevo queste voci nella mia testa. Ho cercato di ampliarne il ventaglio, facendo parlare un bambino, una donna, un signore e creare tra queste molteplici visioni un filo conduttore. Poi, antropologicamente, ho cercato di fare confluire nel testo tutto questo materiale, aggiungendo capitoli, a volte senza un apparente ordine preciso. Avevo una sorta di delirio narrativo. Poi mi hanno detto che la cosa è riuscita. Doveva riuscire perché, anche se le cose apparentemente possono sembrare senza un ordine, quando si scrive c’è una forma sottesa. Per esempio una cosa che mi è rimasta del racconto di quelle persone e di quella realtà è il rapporto che avevano con l’automobile. Allora mi sono detto che dovevo consacrare a questo rapporto un breve paragrafo del romanzo.
Nel libro non c’è alcun dettaglio che sia inventato. Mi sono detto che un giorno questo romanzo potrà essere letto come un libro di storia, perché pur non essendo un libro di storia è un romanzo di verità”.
Un altro paragrafo di Pioggia di giugno è dedicato alla composizione delle grandi famiglie notabili, quando il Libano ancora apparteneva all’Impero Ottomano. È una ricostruzione storica importante che aiuta a capire alcune logiche di appartenenza di clan che ancora caratterizzano il territorio.
Sì, anche quel capitolo è il racconto di un passaggio storico. Ho giocato con più stili nel romanzo, con più voci. Passando dalla voce della giornalista a quella dello storico. Perché abbiamo avuto degli storici locali, che hanno raccontano in parte il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo e come si sono composte le affiliazioni familiari e i clan delle famiglie notabili. Ci sono più voci all’interno di questo romanzo, tutte le voci possibili.
Esistono ancora clan di questo tipo?
È la realtà che ti interessa o il romanzo?
Entrambi
Sì, ci sono ancora clan. Non so se finiranno per farsi guerra ancora una volta. Ma sì, ci sono ancora. Clan che tornano a mobilitarsi ogni volta in occasione delle elezioni. Che funzionano con sistemi simili a quelli mafiosi. Ma, in tutti i casi, i cristiani ora non sono più in un momento in cui possono permettersi di uccidersi a vicenda. Capisci cosa intendo?
Il due giugno è ricorso il decimo anniversario dall’uccisione di Samir Kassir, al quale Pioggia di giugno è dedicato. A dieci anni dal suo assassinio, dopo la Rivoluzione dei Cedri, dopo le Rivoluzioni arabe, che cosa vede nel presente della Regione e del Libano?
Trovo ci sia qualcosa di sorprendente nel ritmo che prendono gli avvenimenti. Dopo la prima rivoluzione tunisina e poi quella egiziana le cose sono successe a una velocità impensabile e ora il Medio Oriente è in un momento di agitazione assoluta. L’inizio delle rivoluzioni è stato promettente, le persone che si sono rivoltate avevano davvero un programma di destituzione delle dittature militari e poi sia per una volontà che per una manipolazione, gli islamisti sono arrivati a investire i paesi arabi. E hanno provocato una situazione in cui persone come noi si trovano intrappolate, senza tuttavia rinunciare in alcun momento al nostro antico desiderio di democrazia. Non si è ancora riusciti a stabilire una forma di equilibrio all’interno delle società con uno Stato che possa garantire una forma di convivenza tra le persone, un vivere insieme. Sono talmente tanti e così complicati i fattori in gioco. Per quanto riguarda l’Egitto, che in questo momento è un discorso a parte, con i militari c’è una dialettica che marginalizza ancora una volta i democratici. In bilad esh sham, (la regione che comprende storicamente Siria, Libano, Transgiordania e Palestina) l’influenza iraniana è talmente nociva che riesce a far riemergere ciò che di peggiore c’è. Per quanto riguarda il Libano credo che intervenire nella guerra a nome di fazioni religiose, come quando gli sciiti intervengono nel conflitto siriano in nome dello sciismo e i sunniti vanno a combattere in nome del sunnismo, trascinerà ancora una volta il Paese nel gorgo di qualcosa che ha già conosciuto. Qual è la soluzione contro i conflitti confessionali, religiosi? Credo che l’unica soluzione, l’unica barriera di difesa, sia un’entità che salvaguardi la sicurezza del Paese. Questa entità è lo Stato. Con le sue frontiere, le sue forze armate. Se lo Stato non funziona…
Poi fa un grande sospiro e interrompe la conversazione.
La situazione è dura.
6) Il quartiere americano il suo ultimo romanzo di prossima pubblicazione anche in Francia e speriamo presto anche in Italia, è ambientato nella città libanese di Tripoli. Affronta la tradizione delle grandi famiglie notabili della città ma anche l’emergere del salafismo nei suoi quartieri più poveri, come quello che da il titolo al romanzo. Tripoli che continua da anni – fin dalla guerra del ‘75-‘90 a essere teatro di scontri durissimi tra due dei suoi quartieri, Jabal Mohsen il quartiere alevita che sostiene la politica assadista in Siria e Bab al Tabbaneh il quartiere sunnita che la oppone – ha subito uno spillover particolarmente violento della guerra siriana, fin dal 2011. Credo che una città come Tripoli sia una metafora della Regione e anche del Libano. È così?
Certo, ancora più della Regione che del Libano. Tripoli è un luogo in cui c’è povertà e Islam e in molti casi questa congiunzione può diventare esplosiva. La cosa che mi ha affascinato del potere raccontare Tripoli è che questo è un luogo con dinamiche che si possono ritrovare anche altrove, all’estero. Nell’ Europa delle banlieu, per esempio.
Il romanzo affronta la storia di un uomo che quasi inconsapevolmente si radicalizza e decide di unirsi al Jihad. Così come oggi giovani europei, maghrebini, arabi, si radicalizzano e scelgono di prendere le armi in Siria e in Iraq. Come nasce l’idea del romanzo?
Per me Tripoli è una città di ogni giorno, perché vivo molto vicino. È la città in cui ho fatto i miei studi e nella quale ho insegno all’Università. Frequento i suoi caffè, le sue strade, ci sono i miei amici. C’è stato un momento in cui mi sono reso conto che Tripoli è un luogo sintomatico. Quando ho scritto il libro, e quando è stato pubblicato in arabo, non c’erano ancora molti giovani che partivano da Tripoli per unirsi al Jihad in Siria. Dopo invece i casi hanno iniziato a moltiplicarsi. Allora mi sono detto che davanti a quartieri come quello che indago nel romanzo avevo lo spazio necessario per raccontare. E allo stesso tempo racconto l’altra Tripoli, quella delle famiglie più ricche, più tradizionali, gli ambienti delle grandi famiglie notabili. Ci sono due poli che caratterizzano la città. Nel romanzo ho cercato di farne un ritratto. Ho raccontato la storia e la tradizione di queste grandi famiglie e l’insorgere di giovani islamisti radicali. Persone affiliate a gruppi estremisti, clandestine, jihadiste. E alla fine del romanzo ho voluto dare un messaggio di speranza.
Durante la guerra è rimasto in Libano?
Sono stato in Francia per un periodo e poi sono rientrato. Ho vissuto al mio villaggio, nel nord, e sono restato.
Qual è la libreria alla quale è più legato?
Oggi o un tempo?
Entrambe
Oggi la libreria che amo di più è Al Bourj. (downtown Beirut). In passato è stata la libreria Antoine. Dico Antoine perché ho fatto studi di letteratura francese quindi ho sempre avuto bisogno di frequentare una libreria francofona. Da Antoine andavo prima e anche durante la guerra e tutt’ora la frequento spesso. Era ed è ancora oggi una grande libreria, come le più belle che possono trovarsi a Parigi.
Se dovesse disegnare la sua geografia interiore, personale, di Beirut, quali luoghi sceglierebbe?
Quando studiavo all’università la mia geografia personale di Beirut era a ovest. Hamra, Ras Beirut. Oggi come oggi, i luoghi che frequento di più sono qui, in centro, a downtown Beirut. A Beirut Ovest, prima della guerra, c’erano i cinema, i cafè, i teatri. A Est non c’era nulla, praticamente niente, solo un cinema. I giornali, gli editori, le ambasciate, l’Università Americana; tutto era a ovest. A Beirut Est c’era l’Università St. Joseph, certo, ma la Beirut cosmopolita, quella società che la guerra ha cercato di distruggere completamente, era dall’altra parte. Oggi resta qualcosa di ciò che fu un tempo. In questo periodo Hamra si sta rivitalizzando e Beirut vive un momento di effervescenza culturale, è una città vibrante ma ogni cosa dipende anche dall’età. Oggi non posso più permettermi di dire che Hamra è la mia Beirut.
Oggi Hamra è per voi.