Il comandante Najat e il Kurdistan iracheno in guerra contro Daesh – di Ilaria Romano e Mauro Consilvio

Ho cinque minuti, cosa volete? Najat Ali, comandante dei peshmerga di stanza nell’area di Makhmour, siede da solo a un lunghissimo tavolo ovale di legno scuro lucido, che stride con le pareti scrostate di quella che un tempo era una scuola e oggi un presidio militare. Elegante nella sua tradizionale divisa marrone, abbottonata fino al colletto, ha lo sguardo profondo di chi è abituato a capire in pochi secondi chi ha di fronte. È arrivato con un’imponente scorta armata, a bordo di un’auto blindata con i vetri oscurati. Per avere questi preziosi cinque minuti che dovrebbero tradursi in un via libera fino alla frontline, abbiamo percorso due ore di strada da Erbil, a bordo di un taxi, superato una decina di check point, sostato in un’altra piccola base lungo la strada, dove abbiamo avuto il premesso di proseguire e, infine, aspettato per più di due ore nella “sua” sala d’attesa. In totale avremmo bevuto almeno un litro e mezzo di chay a testa, e fumato una quindicina di sigarette. Le nostre e quelle che ogni soldato che transita in questa stanza offre senza possibilità di rifiuto.

Najat ci guarda serio, poi si confronta con il nostro amico, autista, peshmerga, interprete. Ci sta presentando Najat in curdo, finché questi lo interrompe e comincia a parlare in inglese, e si rivolge a noi direttamente. Tre minuti se ne sono già andati.

Così vorreste andare al fronte? È lui che deve autorizzare il nostro trasferimento. Volete restarci anche di notte? Ma sapete che è pericoloso e che se vi succede qualcosa è un problema per i miei soldati?

Sappiamo tutto – lo rassicuro – ma è importante fermarsi con loro per cominciare a fare un lavoro che non si traduca in sei foto di rito e un racconto basato su mezz’ora di interviste.

Vi basta una notte?

No, facciamo almeno tre.

Perfetto, allora ve ne basta una.  

Non è l’accordo che volevamo, ma è un via libera che si potrà ricontrattare sul posto. Ci riaccompagnano in sala d’attesa. E da lì nell’altra ala dell’edificio. Il piazzale sterrato che fino a poco tempo fa si riempiva di bambini tutte le mattine è diventato un parcheggio per i mezzi militari. All’ingresso c’è una gigantografia del presidente Barzani con la bandiera della Regione Autonoma del Kurdistan di Iraq, e nei corridoi, come fossero in mezzo agli alberi, volteggiano le rondini che hanno fatto i nidi fra le crepe dei muri.

Arriviamo in una sala con la tavola apparecchiata e scopriamo di essere appena stati invitati a pranzo. Siete molto fortunati – continua a ripetere il nostro amico – tutti cercano di parlare con Najat ma lui non ha mai tempo. Voi avete avuto l’appuntamento in quattro giorni e aspettato solo quattro ore. Fortunati.

Ci servono da mangiare: riso con pollo, zuppa di pomodoro e fagioli, yoghurt.

Avete visto quei mezzi qui fuori? – dice il comandante – Erano di Daesh, li abbiamo sequestrati in febbraio, quando c’è stato l’ultimo grosso attacco da queste parti. Sono arrivati in 200, era da tanto che non succedeva, nell’ultimo periodo si muovono per piccoli gruppi per non dare nell’occhio e arrivare il più vicino possibile. Ad oggi, la situazione in quest’area è abbastanza sotto controllo, ma non possiamo abbassare la guardia. Poche notti fa sono tornati e c’è stato un nuovo scontro. Uno dei nostri è morto.

Ad agosto Makhmour era stata presa dai miliziani dello Stato Islamico, ma dopo giorni di battaglia è stata liberata dai peshmerga. Prima di allora nel paese vivevano circa 28mila persone. Qualcuno nel corso dei mesi è tornato, ha riaperto qualche piccola attività lungo la strada principale: c’è un barbiere, uno spaccio di abbigliamento, una bottega che vende generi alimentari e sigarette. I villaggi intorno invece sono completamente deserti, e semidistrutti. Solo le case in muratura sono rimaste in piedi, quelle costruite con i mattoncini di paglia e terra sono cumuli di macerie, dai quali spuntano vestiti, tappeti, qualche giocattolo, cancelli arrugginiti.

mauro consilvo bassaPenso che il Kurdistan – continua Najat – e il suo popolo stiano dando tanto in questa guerra. Volete sapere qual è il problema? Il problema è che il Kurdistan fa parte dell’Iraq. Abbiamo tentato di essere uno stato indipendente, ma al momento non ci sono le condizioni. Il problema è soprattutto di natura economica, ma l’instabilità non è una causa, al massimo una conseguenza. Dal punto di vista amministrativo seguiamo una nostra politica e ci siamo dati principi democratici, ma non è facile rapportarsi con un governo centrale, creare economia e benessere se si viene osteggiati continuamente. E oggi con lo Stato Islamico alle porte si è avuto un arresto dello sviluppo in tutti i settori.

Le divergenze fra Erbil e Baghdad sono note, passano anche per il controllo dei pozzi di petrolio dell’area. Proprio in questi giorni il Kurdistan ha accusato il governo centrale di non aver rispettato i termini dell’accordo sul greggio firmato nel dicembre scorso: raggiunti i 500 mila barili al giorno spetterebbero alla regione autonoma 764 milioni di euro, che non sono mai arrivati. Un flusso di denaro che, se interrotto, si ripercuote non solo sull’economia regionale, ma anche sugli approvvigionamenti dei peshmerga che non ricevono regolarmente gli stipendi ormai da mesi.

Abbiamo creduto di poter gestire il petrolio in autonomia – dice ancora Najat – il risultato sono stati i tagli. Qui si sta combattendo una guerra che non è la nostra, eppure siamo praticamente soli in prima linea. L’esercito iracheno ha tre ordini di problemi: intanto non è un’entità ben definita, poi sconta la corruzione e la scarsa volontà politica di portare avanti interventi risolutivi. La verità è che l’instabilità di quest’area fa comodo a molti, mentre il Kurdistan come stato indipendente darebbe fastidio. Ma questo è un problema storico, che ci portiamo dietro da quando l’area dei curdi è stata smembrata fra quattro stati. Di fatto qui si concentrano gli interessi di tanti, dei confinanti Iran e Turchia, prima di tutto, ma anche delle forze internazionali su larga scala. Altrimenti perché non si è fatto nulla prima, se Daesh esisteva già da quattro anni? La verità è che la comunità internazionale non riesce ad esprimere una posizione unitaria su questa situazione, per l’Iraq come per la Siria e in tutto questo il peso dell’Europa è minimo, se si pensa che non riesce a esprimere nemmeno una reale politica comunitaria fra i suoi stati.

Finiamo di mangiare, e restiamo ancora a parlare nella sala accanto, davanti ad una tazza di chay. Entra un uomo sulla sessantina, in divisa. Lui è americano – lo presenta Najat – è venuto per combattere con noi dall’Alabama. Ha sessant’anni e ha sentito dell’Isis in Tv. Ha deciso che era giusto essere qui a dare una mano. Come lui ci sono altri stranieri fra i nostri soldati. È l’unico da queste parti che parla inglese. Nei prossimi giorni dovrete fare come lui: comincerete a comunicare col linguaggio degli indiani.

 

photo credit: Mauro Consilvio

About author