Stefano Pacini è un fotografo, ma anche un attivista che mantiene i piedi nelle trasformazioni sociali, conservando la memoria di quel mondo contadino che è stato spazzato via da queste stesse trasformazioni sociali. Nato a Massa Marittima nel 1956, Stefano ha fotografato la rivoluzione dei garofani in Portogallo, il movimento rivoluzionario e creativo degli anni ’70, le strade di Genova 2001, i campi Rom e la distruzione bellica della ex Jugoslavia. La sua opera fotografica è stata esposta a Cuba, in Bosnia e in Portogallo. Oggi, dopo l’avvento del digitale, Stefano si è trovato sbalzato fuori dai flussi commerciali del mercato fotografico. Continua però a insegnare fotografia nei corsi della Corte dei Miracoli, un centro culturale di Siena ospitato in un ex ospedale psichiatrico, redige una rivista on line, “Maremma Libertaria”, e si guadagna il pane lavorando nei campi.
Com’è che il figlio di un fattore comincia a dedicarsi alla fotografia? Com’è entrata la macchina fotografica in una casa poderale del dopoguerra? Se non sbaglio la tua prima foto è stata una foto di famiglia…
Ho iniziato per gioco. Ero affascinato dalle immagini di famiglia in bianco e nero formato 6×9 di mio padre Bovisio: la famiglia, le ricorrenze, i lavori, le brevi vacanze avventurose sulle Dolomiti (due giorni di viaggio per arrivarci, prima con una Topolino grigia scura e poi, simbolo di progresso anche economico, con una Fiat 1100). Mio padre era decisamente un tipo particolare per l’epoca: veniva da una famiglia numerosa di mezzadri dalle campagne di Colle Val D’Elsa. Dopo le scuole elementari i suoi avrebbero voluto che interrompesse gli studi, ma lui si ribellò e pur lavorando duramente nel podere, studiando dopo cena a lume di candela prese il diploma di perito commerciale. Dopo la guerra si era sposato con Marisa ed era andato a lavorare in Maremma, che all’epoca era ancora una sorta di Far West. All’inizio fu assunto come aiuto fattore, poi come fattore, mentre mia madre aveva messo su una ferramenta. Mia sorella ed io siamo nati negli anni ’50 e mio padre, che aveva una passione per tutti gli apparecchi fotografici e radiotelevisivi, con uno dei primi stipendi aveva comperato una Ferrania. Nel nostro podere dell’Ente Maremma mancava l’elettricità, l’acqua era di pozzo, la strada a sterro e i maiali bradi, ma si fotografava, spesso e volentieri. La mia prima foto di famiglia è del 1966 e io ero un bambino. In quelle piccole grandi foto non c’è solo la storia della nostra famiglia, ma di una Italia che credeva nel progresso, in un futuro migliore per i figli, che si batteva per i suoi diritti, e non perdeva mai il sorriso.
Com’è avvenuto il tuo passaggio dalla fotografia come hobby alla fotografia socialmente impegnata?
Per qualche tempo ho scattato fotografie con la Ferrania di mio padre, poi ho capito che esistevano altri sistemi oltre regolare il selettore su sole, nuvole , pioggia e flash. Per cui alla fine della vendemmia del ‘73 ho fatto il biglietto Inter-Rail, che ti permetteva di girare in treno tutta l’Europa per un mese (un po’ l’Erasmus dell’epoca) e sono arrivato a Londra. Qui ho comperato due macchine usate a un prezzo ridicolo rispetto a quello italiano: una Rolleicord biottica 6×6 ed una Yashica reflex. È stata una piccola rivoluzione. Ho iniziato ad immaginare le foto prima di scattarle, ho avuto la sensazione che una macchina fotografica servisse non solo a riprendere la realtà ma anche a comporla. Inconsciamente credo anche di avere continuato a fare quello che faceva mio padre: scattare in b/n per raccontare la nostra vita, le nostre aspirazioni, i sogni, gli ideali, i viaggi… Ma va detto anche che negli anni ’70 la fotografia di reportage l’ho usata – come molti, brandita come fosse un’arma – al servizio del Movimento in cui nuotavo come un pesce nell’acqua. Ci eravamo messi insieme in quattro: abbiamo comperato un ingranditore usato e tutta l’attrezzatura, delle vecchie Nikon e alcuni obbiettivi, ci ispiravamo a Koudelka, Tano D’Amico, Capa. La fotografia sociale raccontava un decennio rivoluzionario, le speranze, le illusioni, la luce particolare di volti bellissimi. Fotografavo esclusivamente in bianco e nero. La prima svolta, umana, politica e fotografica l’ho avuta nel ’75: mi ero appena diplomato perito tecnico-minerario, ma invece di andare al mare partimmo in tre per il Portogallo, dopo aver fatto una colletta, con una vecchia Mini Minor: volevamo andare a vedere la Rivoluzione dei garofani. Avevo con me una Yashica con un obiettivo 50mm e un po’ di pellicole Ilford b/n bobinate a mano. A Lisbona dormivamo in un palazzo occupato da Lotta Continua: al risveglio, gambe in spalla e via a fotografare. Ci sembrava di sognare, dopo tanto parlare di Rivoluzione. Scattavo foto alla luce incredibile della città sul Tago con i suoi tram sferraglianti d’anteguerra, i suoi palazzi coperti di azulejos, i mercati all’aperto dove potevi trovare di tutto, dalle scarpe all’erba angolana, dai gitani che suonavano nenie tristi agli afro-portoghesi giganteschi che volevano solamente parlare con te, curiosi di capire da dove venivi e cosa facevi, mentre studenti universitari attaccavano enormi manifesti e striscioni in stile maoista. Intanto ragazzini a piedi nudi come i nostri scugnizzi napoletani si rincorrevano dietro un pallone di stracci.
Alla radio nazionale, occupata da un collettivo di giornalisti, avevamo lasciato in dono alcuni dischi. Una mattina accendemmo la radio e in mezzo a un profluvio di parole in portoghese capimmo: “Disco, dono di compagni italiani, Area, gruppo popolare internazionalista”, e subito dopo la voce inconfondibile di Demetrio Stratos: “La mia rabbia legge sopra i quotidiani, canta il mio dolore, canta la mia storia, canta la mia gente che non vuol morir…”. Spesso scortavo il corrispondente di Lotta continua, che mi sembrava vecchio anche se in realtà aveva trent’anni. La sera, dopo aver avuto la linea nel palazzo dei telefoni, dettava l’articolo a Roma. Una mattina giunse la notizia che in Spagna il dittatore morente Franco avrebbe fatto fucilare cinque antifascisti baschi e catalani. Partimmo in corteo in migliaia, muovendo dal centro verso l’ambasciata di Spagna distante diversi chilometri. Entrammo dentro il consolato, poi dentro la compagnia Iberia, polverizzando ogni cosa con mazze, picconi e mani nude. Non ci fermò nessuno, molti ci applaudivano, la polizia stava a guardare, non voleva rogne. Arrivammo all’ambasciata, un palazzo immenso, e qui trovammo degli autobus dirottati da gruppi di ladruncoli del Rossio che “salvavano” argenteria, quadri, mobiletti, automobili persino. Il loro mercato parallelo ci campò per settimane. Dopo alcune ore arrivarono dei camion carichi di parà, spararono raffiche di mitra in aria per disperderci. Me ne tornai in Rua Do Prior a piedi portandomi a mo’ di trofeo una targa dell’ambasciata strappata dal portone. Per strada mi abbracciavano scambiandomi per spagnolo. Queste foto le ho custodite per molti anni, finché le ha acquisite il Centro per la fotografia portoghese di Oporto. Lo scorso anno per il 40esimo della Rivoluzione mi hanno scritto e chiesto se volevo metterle a disposizione per una delle mostre a Lisbona. Così dopo quarant’anni sono ritornato in Portogallo. Stavolta andavo in aereo, stavolta al collo avevo una macchina digitale ma, quando mi sono ritrovato in un palazzo con quelle mie foto in bianco e nero, mi è passata davanti tutta la vita in pochi minuti.
Dopo il Portogallo ho fatto alcuni reportage nei campi rom, dalla Calabria alla Camargue. Esperienze fortissime, indelebili, uno scambio umano che ha spazzato via diffidenze reciproche molto forti. Ho collaborato a lungo con l’Opera Nomadi. Viaggi in Italia ed Europa, anche in Marocco. E poi la Bosnia durante la guerra, i viaggi in furgone per portare viveri e medicine e incontri sorprendenti, come trovare Erri De Luca in un convoglio di Radio Maria. Cuba invece merita un discorso a parte: qui sono stato più volte, è stato amore a prima vista. Nell’isola del socialismo tropicale è stato concepito Emiliano, il mio primo figlio, e a Cuba è finita la mia mostra sull’Italia che cambia (“Sliding doors”), dopo un passaggio al Toscana Foto Festival. Io e le mie fotografie siamo arrivati all’Avana in nave, assieme a dei medicinali raccolti dall’Arci.
Quando la fotografia è diventata anche un mezzo di sostentamento, per guadagnare oltre alle rose anche il pane?
La storia è lunga e complicata: ho sempre fotografato ma ne ho fatto una professione esclusiva dal ’93. Agli inizi portavo i miei primi rulli a sviluppare nello studio di Corrado Banchi a Massa Marittima. Corrado è stato un grande fotografo fiorentino trapiantato in Maremma, la sua foto più famosa è la rovesciata di Parola durante la partita Fiorentina-Juventus del 1950. Icona per decenni del calcio e copertina delle buste di figurine calciatori della Panini, riprodotta milioni di volte in tutto il mondo, in tutti i modi. Senza che l’autore ci avesse fatto troppi soldi, visto che aveva venduto il servizio a un quotidiano toscano per qualche spicciolo e solo dopo qualche tempo la foto cominciò, tramite le figurine, a fare il giro del mondo. Corrado era un tipo originale. Ricordo che una volta gli chiesi un parere su alcuni miei scatti. Me ne strappò la metà e quelle che mi restituì disse che andavano bene. Imparai alla svelta a fare un editing rigoroso.
Nel ’93 ho aperto il mio studio fotografico, che ha avuto sede prima a Massa Marittima e poi a Siena. Per campare ho fotografato di tutto: matrimoni, funerali, cerimonie, gare ciclistiche, maratone, lauree. Ho stampato con un mini lab, ho visto il tramonto dell’epoca analogica e l’indifferenza del digitale verso la manualità artigiana del fotografo. Alla fine ho dovuto chiudere lo studio: un po’ ci si sposa sempre meno, un po’ la crisi, un po’ il digitale, che non stampa più nessuno…
Adesso svolgo vari lavori. Sono ritornato al mestiere di mio padre e passo parecchio tempo nel podere e a opera come avventizio agricolo, tra motoseghe, legna, ulivi, vigne. Questo di giorno. La sera però mi dà molta soddisfazione tenere corsi di fotografia assieme alla fotografa Daniela Neri all’ex Ospedale Psichiatrico di Siena, che oggi è diventato il Centro culturale Corte dei miracoli (peraltro è a rischio sfratto). In dieci anni abbiamo visto partire dai nostri corsi verso le località più disparate molti fotografi, tanti dilettanti, alcuni professionisti, spesso capaci di uno sguardo non convenzionale e scomodo. Per me è un passaggio del testimone, da quel lontano ’66 e quel mio primo scatto con quella piccola Ferrania. Sono andato per il mondo, sempre fotografando, sempre domandando, sempre ricevendo umanità, sorrisi, bellezza. Ché la fotografia, come diceva l’anarchico Camillo Berneri a proposito dell’Utopia, accende una stella nel cielo della dignità umana ma ci costringe a navigare in un mare senza porti.
photo credit: Stefano Pacini
1) Foto di famiglia, 1966
2) La marcia dei Rom
3) Bambini a Cuba