Ero là insieme alle donne della mia vita. Ero nei colori. Nelle tonalità vermiglio scuro, magenta e corallo di un sole stanco. Nel blu tra il cielo e il mare. Ero là e guardavo. Le loro conversazioni e le loro risate tenevano la terra al suo posto, rimboccavano la spiaggia sotto l’acqua, sostenevano il cielo e lo decoravano con le stelle, la luna e il sole. Tutto questo successe a Gaza. Successe in Palestina. E io rimasi più a lungo che potei.
Sono queste le ultime parole di Nel blu tra il cielo e il mare (Feltrinelli Editore. Traduzione dall’inglese di Silvia Rota Sperti), nuovo romanzo di Susan Abulhawa, scrittrice palestinese che vive negli Stati Uniti, a cinque anni dall’uscita di Ogni mattina a Jenin (tradotto sempre per Feltrinelli da Silvia Rota Sperti), che la rese una scrittrice tradotta in 23 lingue e letta in tutto il mondo. La voce che le pronuncia è quella di Khaled, il bambinio che tesse le trame di questa composizione struggente ambientata tra Gaza e gli Stati Uniti.
Ancora una volta, come già in Ogni mattina a Jenin, Abulhawa affronta la narrativa della Nakba palestinese attraversando la storia personale e familiare di quattro generazioni di donne.
Il racconto inizia nel piccolo villaggio palestinese di Beit Daras, dove da secoli viveva la famiglia Baraka. Prima degli scontri del 1947 che portarono alla creazione nel 1948 del moderno Stato di Israele, anno che nella memoria collettiva palestinese è tramandato come al Nakba. La catastrofe che spinse migliaia di civili palestinesi fuori dalle proprie case privandoli della terra e trasformandoli in rifugiati, apolidi o civili prigionieri all’interno della propria stessa patria.
Arrivarono di nuovo nel marzo e, a più riprese, nell’aprile del 1948, e la loro collera crebbe per l’incredulità e l’indignazione di vedere che un piccolo paesino di contadini e apicoltori poteva fronteggiare la forza di fuoco delle ben addestrate Haganah, con le loro armi automatiche e gli aerei da combattimento contrabbandati dalla Cecoslovacchia sotto il naso dei britannici per prepararsi alla conquista. Durante l’ultimo attacco di aprile, cinquanta donne e bambini di Beit Daras furono trucidati in un giorno, e subito dopo gli uomini ordinarono alle loro famiglie di fuggire a Gaza mentre loro rimanevano a combattere
Da Umm Mamduh, matriarca della famiglia, la donna folle e temuta perché in grado di parlare con i jinn, i demoni, passando attraverso la voce di Nazmieh, sua figlia – la ragazza più bella e più sfacciata di Beit Daras, seguendo lo sguardo incontaminato della piccola Mariam la sorella minore di Nazmieh, che vedeva i colori dell’anima nell’aura delle persone e che parlava con Khaled, l’amico immaginario che le insegnava l’arabo ogni notte sulle sponde del loro fiume, pieno di tutto il divino assortimento di pesci e di flora, scorreva attraverso Beit Daras portando benedizioni e trascinando via gli scarti, i sogni, i pettegolezzi, le preghiere e le storie del paesino per poi vuotarle nel Mediterraneo poco più a nord della città di Gaza per arrivare alla voce di Nur, che chiude questo cerchio familiare di diaspora ed esilio.
La giovane Nur, nipote di Nazmieh, dopo avere vissuto negli Stati Uniti passando da una famiglia affidataria all’altra – dalla morte del nonno Mamduh che aveva lasciato Gaza decenni prima per cercare fortuna negli States – a distanza di sessanta anni da quel 1948, compie la traiettoria opposta di esilio e apolidia per decidere di tornare alla radice del suo destino, tra quello che rimane della sua famiglia, nella sua terra martoriata e sognata: Gaza.
Perché sa che lì dimora il segreto della sua storia e del suo presente. Solo a Gaza, in quella devastata prigione a cielo aperto, sa che potrà finalmente smettere di essere un’apolide persa in un Occidente che non l’ha mai riconosciuta. Solo a Gaza potrà, ricongiungendosi al dolore e alla dignità della sua terra, ritrovare la sua identità.
La più grande prigione a cielo aperto del mondo contemporaneo, bloccata e stritolata da due valichi che rendono complicatissima l’entrata e la fuoriuscita dei civili, questa città distrutta era un tempo un florido crocevia di culture e di commerci.
Le terre verdi e sabbiose di Gaza erano il principale crocevia tra l’Africa del Nord, il Medio Oriente e l’Europa, nonché il fulcro del commercio delle spezie, l’attività più redditizia al mondo in epoca medievale. Considerati tra gli artigiani più raffinati, i palestinesi di Gaza producevano fin dal 2000 a.C. gioielli altamente ricercati. In ogni epoca, Gaza attrasse nobili e pellegrini, mentre eruditi provenienti da tutto il mondo percorsero la “Via Maris” diretti alla Grande Biblioteca di Alessandria.
Una polifonia complessa e dolorosa che indaga il senso di appartenenza e spoliazione, di occupazione e violenza nella narrativa palestinese. Come la Storia, entrando e sconvolgendo le vite dei singoli, abbia tessuto un dramma collettivo di espropriazione. Nel luogo privilegiato della scrittura, l’autrice, crea uno spazio di appartenenza dentro la distruzione, di ricongiungimento nel mezzo della diaspora, e riesce nel tentativo di ridisegnare i confini di un immaginario collettivo. Riconsegna, dunque, alle parole il loro valore fondante, costruendo un luogo che sa testimoniare la tragedia e la forza di un popolo e del suo presente.
Riesce, Abulhawa, nel tentativo di portare parola nel vuoto lasciato da ogni lutto, di immaginare un futuro in una terra devastata da un tempo troppo violento.
La scrittrice affida questa responsabilità di testimonianza e racconto alla voce di Khaled, il bambino gazawi intrappolato in uno stato di coma silente ma vigile, che pur riesce a leggere il passato e ad attraversare il futuro. La sua voce oltrepassa i limiti fisici della prigione del suo corpo e della sua terra e, libera di muoversi – come non lo è lui e come non lo sono i cittadini di Gaza – ha il potere catartico di creare e di sapere vedere un nuovo immaginario, che tiene, racchiuso in un solo sguardo il lutto e le battaglie del popolo palestinese, la sua memoria e la sfida del suo presente.
Ne abbiamo parlato con l’autrice
Da Amal protagonista di Ogni mattina a Jenin a Nur, che chiude il cerchio della memoria di Nel blu tra il cielo e il mare, i tuoi romanzi sono costruiti attorno a personaggi femminili estremamente complessi. Voci che incarnano una narrativa di spoliazione, esilio e resistenza che si perpetua in loro, generazione dopo generazione. Qual è, nella tua scrittura, il rapporto tra maternità, memoria e costruzione di una narrativa collettiva?
Le composizioni psicologiche, spirituali ed emotive delle donne mi arrivano più facilmente. Invece di riflettere sulla maternità, come la tua domanda suggerisce, preferisco farlo sulla femminilità. Forse per ovvi motivi, capisco il femminile in modo più profondo. Anche perché ho una naturale affinità e curiosità per la vita delle persone che vivono nelle ombre e negli angoli di eventi straordinari e di narrazioni che spesso sono attuate e spinte da loro stessi in modi differenti. Sono interessata alle forme in cui le donne nelle società in lotta guidano la loro vita, in particolare quando queste società sono tradizionalmente patriarcali, perché questi contesti creano una dinamica complessa in cui le donne devono lottare in qualche modo con la forza dello sguardo occidentale che ignora o disumanizza le loro lotte esterne (contro i poteri di supremazia che tentano di eliminarle, depredarle o ignorarle); o che vede sotto una lente “orientalista”, e quindi feticizza, le loro lotte interne (contro il patriarcato e la radicalizzazione della sofferenza di massa).
Quello che voglio dire con questo discorso è che queste donne devono combattere con la costante ipocrisia dell’Occidente, che solitamente non ha alcun interesse a comprendere o a rispettare il contesto delle loro lotte, e nello stesso tempo devono trovare un loro modo per navigare e / o resistere a più livelli di ingiustizie storiche, traumi coloniali e post-coloniali, disperazione economica, tradizioni culturali e religiose, dinamiche familiari, e realtà geopolitiche connesse. Il peso quotidiano sopportato da donne che vivono in queste circostanze è straordinario. Ho conosciuto queste donne e le ho osservate da vicino e da lontano. Sono una fonte autoctona di vita, di storie e di canzoni che ci rinsaldano contro venti politici che non perdonano. In un certo senso mi sento come Nur, le amo e sento il privilegio di essere amata da loro.
Qual è a tuo avviso il rapporto tra tempo e narrativa, in relazione alla storia della West Bank e di Gaza? Dal 1948, anno della Nakba palestinese, passando per 1967, fino ad oggi. È possibile parlare di una forma di congelamento, di eterno presente, che ha cristallizzato la vita di milioni di esseri umani trasformandoli in rifugiati, esuli o prigionieri all’interno del proprio stesso territorio, senza libertà di movimento, di scelta o di progettazione futura?
L’ idea del tempo cristallizzato o circolare è un tema ricorrente in quello che scrivo. Per i palestinesi, il tempo è stato profondamente distorto al punto da essere usato come arma di guerra e strumento del progetto neocolonialista israeliano in Palestina. Israele ha usato la nostra disperazione per lanciare un infinito “processo di pace”, che è stato chiaramente progettato per scambiare false speranze con tempo e per attuare sempre di più i loro piani espansionistici.
In molti modi e per molti palestinesi, l’orologio si è fermato nel maggio del 1948 e le persone hanno continuato fino a oggi a vivere nei loro ricordi. Le generazioni di palestinesi che sono stati espulsi dalle loro case nel 1948 e hanno visto la loro storia e il loro patrimonio saccheggiato da usurpatori europei, hanno vissuto il resto dei loro giorni nell’impossibilità di conciliare una vita da rifugiati se non nella fede in Dio e nel tempo, che avrebbe riscattato i loro ricordi e ripristinato le loro case e la loro patria. In un senso esistenziale, è difficile fare i conti con il presente quando la storia non solo non è stata riscattata ma è stata profondamente danneggiata. Si tratta di una realtà che ci intrappola in uno spazio ristretto di tempo e diventa parte integrante della nostra identità individuale e collettiva. Per me come scrittore, può essere frustrante perché la coazione a scrivere da questo spazio ristretto di tempo è così forte che secoli e secoli di vita palestinese passano poi ignorati dalla letteratura. Questo è uno dei motivi per cui mi piace leggere le storie che si svolgono in altre epoche della Palestina. Ad esempio, la lettura di Le Lanterne del re di Galilea, di Ibrahim Nasrallah, l’ho sentito liberatorio in una certa misura, perché ha liberato la nostra narrazione dai vincoli del nostro dolore collettivo che rimbalza avanti e indietro tra il 1948, il 1967 e il presente.
Ci sono stati molti casi di drammatici rivolgimenti sociali e cambi di potere nella storia della Palestina nel corso dei millenni, ma io non sono a conoscenza di un momento in cui quasi tutta la popolazione è stata sradicata e sostituita da stranieri come nel momento in cui il mondo ha assistito alla Nakba del 1947-1948. E quando l’orribile realtà di ciò che comporta stabilire uno stato suprematista e segregazionista al posto della Palestina è romanzata, l’indignazione e il dolore che si provano sono profondi. Diventa difficile fuggire gli stretti confini tra il 1948 e il presente. Il passato non è riscattato e il presente non ci permette un cammino di speranza o di pianificazione per il futuro.
Khaled, voce narrante di Nel blu tra il cielo e il mare, assurge in qualche modo a metafora della prigione e dei desideri della Palestina e di Gaza, perché intrappolato nella prigione corporea del proprio corpo, della sua stessa carne, e perché può attraversare il tempo e lo spazio, tessendo le fila di una parola e di una visione che si fa memoria individuale/familiare ma anche narrativa di un popolo, della sua storia, della sua tragedia. Ci puoi parlare di questa “voce”, di come sei arrivata alla creazione di questo personaggio?
Questo romanzo è nato come la storia di Khaled, il cui personaggio è basato sulla storia di due bambini palestinesi di cui mi è capitato di leggere: la prima è quella di un ragazzo di undici anni di Gaza che è stato così profondamente terrorizzato da Operazione Piombo Fuso che ha subito sia a livello mentale che psicologico una regressione all’infanzia, ha perso improvvisamente la parola, la capacità di camminare, di alimentarsi, di vestirsi. La seconda storia è quella di una ragazza di tredici anni in Cisgiordania che, rendendosi conto che era ormai troppo grande per toccare suo padre quando lo visitava in carcere (senza possibilità di abbracciarlo né di stringergli la mano), è tornata a casa, è entrata in coma ed è morta qualche settimana dopo. In entrambi i casi, non ci sono stati danni cerebrali o fisici constatabili, ed entrambi i casi sono stati interpretati come risultati di gravi traumi psicologici. Tuttavia, nel momento in cui ho cominciato a scrivere e ho conosciuto – attraverso l’immaginazione – Nazmiyeh e Mariam, poi Alwan e Nur e Rhet Shel, mi sono resa conto che questa era la loro storia. Khaled era il conduttore. Era il filo che le teneva unite. È la voce di ciò che era, di ciò che doveva essere, di ciò che potrebbe essere, e di quanto doloroso sia. E per questo la sua voce è la cosa che continua a tormentarci.
Dopo decenni vissuti negli Stati Uniti, Amal ritorna a Jenin con la figlia Sara, così come Nur, dopo il suo soggiorno statunitense decide di ritornare a Gaza. La poetica del ritorno, cardine della questione palestinese, è la pietra angololare che descrive l’isolamento e la lotta quotidiana dell’apolide e del rifugiato, sradicato dalla propria terra e da ciò che gli era appartenuto. Qual è la responsabilità dell’intellettuale, dello scrittore, di fronte a un tentativo di messa a tacere di una storia collettiva?
Il concetto di ritorno è una pietra angolare del nostro desiderio collettivo in quanto palestinesi. L’esilio, senza la possibilità o la speranza di ricongiungerci alle nostre radici è una condizione triste. Non importa dove andiamo o cosa otteniamo, noi rimaniamo soggetti ai capricci di chi ci ospita. L’esproprio ripetuto è abbastanza comune tra i palestinesi. Coloro che furono espropriati nel 1948 lo furono di nuovo nel 1967. Quei profughi che andarono in Kuwait o in Iraq per cercare di ricostruirsi una vita furono espropriati ancora una volta durante la prima guerra del Golfo e poi di nuovo nella seconda di quella serie di guerre americane. I civili che trovarono rifugio in Libano e in Siria erano la parte della popolazione più vulnerabile nelle guerre che accaddero in quei Paesi. Negli Stati Uniti, i palestinesi sono stati tra i più colpiti dalla legge Secret Evidence del 1996 e poi dalla serie di misure di sicurezza post 2001. Siamo diventati frammentati, non solo come società ma anche come singole famiglie. È raro oggi trovare intere famiglie allargate che vivono come avevamo vissuto per secoli, in stretta comunità, quando nonni, zie, zii, e cugini erano sempre vicini. Siamo tutti sparpagliati in un vento precario senza radici, umiliati e disumanizzati dai potenti media occidentali. Il Ritorno, o almeno la possibilità di ritorno è sentita come sinonimo di dignità. È un’affermazione della nostra umanità; che siamo degni della nostra eredità; che non è stato giusto buttarci fuori dalle nostre case e prenderci tutto quello che avevamo, come se fossimo spazzatura. Il Ritorno è allo stesso tempo sia la prima forma di giustizia che quella definitiva, a mio avviso. È il nostro cammino verso un futuro collettivo contiguo al nostro passato. Fino a quando ciò non avverrà, la narrazione è sicuramente un terreno dove possiamo trovarci e unirci pur in mezzo alla privazione. Ma, ancora più importante, la narrazione è un luogo di potere. I racconti indigeni e la cultura nativa di quella terra sono innegabilmente palestinesi, e questo è un grande potere morale. Questo è uno dei motivi per cui non riesco ad accettare un’appropriazione incurante delle narrazioni e delle culture. Sono stata pesantemente criticata per avere preso una posizione forte su questo tema, ma per me l’appropriazione della narrazione è una colonizzazione delle ferite e del potere di altre persone. Non è una cosa da poco.
Quali sono state – in questo senso – le voci che hanno guidato la tua formazione, come scrittrice e come attivista.
Imparo costantemente e sono sempre ispirata da altre persone, compresi i giovani dei quali non conosco i nomi che si impegnano quotidianamente nei campus di tutto il mondo, come attivisti per la giustizia sociale. Ammiro e sono ispirata da persone comuni che si danno in modo profondo per difendere un ideale morale e per proteggere coloro che non possono difendersi. Un esempio a caso, i ranger nel Parco Nazionale Virunga che hanno messo in gioco le loro vite in prima persona per proteggere gli ultimi gorilla di montagna del mondo dalla invasione delle multinazionali che cercano di saccheggiare sempre di più le risorse della Repubblica democratica del Congo. Cerco queste voci forti che provengono dai cuori gentili del mondo.
Per quanto riguarda intellettuali noti, Edward Said ha il primo posto in questo elenco. Ma ce ne sono molti altri, come James Baldwin, Malcolm X, Kwame Ture, Toni Morrison, Angela Davis, Harriet Tubman, Virginia Wolf, Robert Sobukwe, e molti altri.
Ci puoi parlare della tua esperienza all’interno del Bds e di come questa campagna of boycotts, divestment and sanctions (BDS) possa essere uno strumento di lotta per i diritti umani e politici del popolo palestinese?
Il boicottaggio economico e culturale è un metodo collaudato di resistenza che permette alle persone di coscienza in tutto il mondo di impegnarsi in una lotta morale contro le profonde ingiustizie che i leader mondiali non riescono a correggere. Si tratta di uno spazio vitale in cui si formano e si rafforzano forme di mutua solidarietà e in cui si forgia una formidabile potenza dei cittadini. La Palestina non è l’unica crisi del mondo, né la peggiore. Ma è il fulcro della cultura e dell’egemonia imperialista, ed è l’unico caso in cui nativi terrorizzati e brutalizzati vengono rappresentati come terroristi sulla scena internazionale. Per questo, come ha detto Edward Said, la Palestina è una delle grandi cause morali del nostro tempo.