Soltanto sui campi di calcio quell’ Ellade serena – di Fernando Acitelli

Avevo sempre pensato che la Grecia, per i campionati europei e mondiali di calcio, non dovesse esibirsi nei gironi preliminari e che la sua presenza alle fasi finali delle due competizioni fosse un riconoscimento alla sua fase classica. In un certo senso lo sentivo anche come un obbligo da parte del mondo civilizzato che stava tutt’attorno alla Grecia di Platone e Aristotele. Era la Storia a dover imporre tanto. Chi aveva creato l’anima non poteva situarsi sullo stesso piano di chi a tale solennità non era giunto. O aveva speculato fuori tempo massimo. Grazie tante neoplatonici, tomisti e metafisica tedesca! Una questione d’anima, per l’appunto. Già soltanto per l’Olimpo e Zeus, la Grecia doveva esentarsi da ogni “fastidio” di qualificazione e mentre tutti gli altri avrebbero discusso di gironi, tattiche, orientamenti sui punti da conquistare per riuscire a qualificarsi, la preparazione dei greci sarebbe potuta avvenire attorno al sito dell’oracolo di Delfi oppure nelle vicinanze del palazzo di Cnosso. E i mister/filosofi, prima d’ogni tattica, avrebbero dovuto rispolverare, rammemorare i libri sacri, per così dire, dal Timeo al Fedro al Teeteto, tra gli altri, di modo che i calciatori prescelti fossero così ben calati nelle vicende umane che in loro ci fosse spazio soprattutto per il logos. E, in virtù di tutto questo, in campo avrebbe dovuto prevalere il dialogo, con gli avversari, con l’arbitro, con il pallone tra i piedi. Dialoghi metafisici nel reparto arretrato per paura del nemico e poi il mondo delle idee a centrocampo e in attacco, a proporre il logos certo ma anche ad elaborare di continuo l’inganno. Ah, l’inganno!

Volevo che lo stemma della Grecia fosse il cavallo ligneo, colossale, e che tutti avessero quel sigillo sul petto, dal portiere Takis Ikonomopoulos, agli attaccanti Dimitros Papaioannou e Antonis Antoniadis, fino agli assi degli anni’80, Saravakos e Mavros. Quel tempo remotissimo, già mitico dell’inganno di Troia, doveva vedersi ovunque, in mondovisione. E quando accadde che Ferenc Puskas, in qualità di mister del Panathinaikos, condusse gli ellenici in finale di Coppa dei Campioni – era il 2 giugno 1971 – pensai più ad un intervento di Zeus che non alla formidabile lungimiranza tecnico-tattica del grande ungherese. Certo, Antoniadis non era Hidegkuti, Domazos non era Puskas e Grammos non era Czibor, ma comunque i greci erano arrivati alla finale di Londra, cedendo poi per 2 a 0 al già grande Ajax di Cruiff e di Rinus Michels. Squadra di club, certo, e non nazionale ma era già qualcosa e pensai allora che qualche rumore stava verificandosi sull’Olimpo, qualche precisazione di Zeus sulle questioni umane. Quello che io notavo, comunque, era che i tratti dei greci erano cambiati. D’accordo anche la lingua non era più quella di Pericle e Platone ma almeno i tratti del viso avrei voluto incontrarli ancora. Non chiedevo d’avvistarli sotto il Partenone o a Delfi ma, più semplicemente, su un campo di calcio. E invece niente, e di quella frangetta nera sulla fronte e di quegli occhi marcati, come nei profili dei kantaros, più nulla. Nulla, il nulla, la grande paura dei greci e l’opposizione, ad essa, dell’anima. L’anima: l’unico sistema difensivo, il pressing asfissiante sul divenire. Ma tornavo allo sguardo greco e volevo quegli occhi come profilati di nero, marcati, quasi senza iride nelle statue di marmo e svelanti quasi una disappartenenza al mondo e in colloquio silente e continuo con gli dèi. Anche sui campi di calcio i greci dovevano apparirmi in quel modo classico e oscillare tra i lavori di Fidia, Lisippo e Apollonios. Avevano forse perduto i tratti originari disperdendosi con altre etnie? Possedevano ancora alla nuca quella sporgenza ossea, quel marchio indelebile dell’antichità scoperto dal famoso medico Erofilo di Calcedonia? C’era da credere che oltre ai tratti dissolti, non si sarebbe più sentito, alla palpazione sotto la nuca, il cosiddetto torculare o confluenza dei seni venosi, descritto da Erofilo di Calcedonia nel III secolo avanti Cristo. Eppure i greci non uscivano fuori del loro territorio. Neppure i calciatori.

grecia-euro-2004-1-744461_0x410 (1)In Italia non venivano e s’incominciò a valutare uno “straniero” ellenico in squadra soltanto dopo la partecipazione della Grecia agli Europei del 1980. Pure in quell’occasione, a vederli da vicino, non c’era nulla degli antichi tratti! Chi si salvava? Raro che si potesse dire: “Oh, ecco un greco!”. Forse nel portiere Vassilis Konstantinou qualcosa era rimasto, forse dei dedriti in Giannis Kirastas in Giannis Damanakis, centrocampisti. Ad osservare bene lo scenario, soltanto in Takis Nikoloudis – anche lui centrocampista – si poteva cogliere una provenienza certa. Erano i suoi occhi ispirati e remoti a trasmettermi qualcosa dell’età classica, a farlo un compagno d’Ulisse. Poi più nulla, neanche in un nome e cognome splendidi come Spiros Livathinos, centrocampista. La venuta in Italia, all’Avellino, nel 1987, di Nikolaos Anastopoulos non fece che peggiorare la siuazione quanto ai tratti di greco antico. Di fatto egli era una risultanza tra Toninho Cerezo e Pietro Paolo Virdis, e dunque addio allo sguardo di Apollo, o, più semplicemente, di Pericle. Ma cosa si doveva fare per vedere Omero, Plotino, Teofrasto? Forse l’unica cosa era soggiornare in Magna Grecia e precisamente nel tratto compreso tra Crotone e Siracusa: lì di sicuro avremmo incrociato qualche superstite uomo greco. Né le cose mutarono a Italia ’90, per l’amor di Dio! Nessun bassorilievo o esistenze da vaso d’Eufronio, niente. Gli unici che in certo modo avrebbero potuto far pensare al mondo antico erano i difensori Ioannis Kalitzakis, Athanasios Kolitsidakis, entrambi del Panathinaikos, e poi il centrocampista dell’Aek Anastasios Mitropoulos e gli attaccanti Vassilios Dimitriadis dell’Aek e Kostas Chaniotakis dell’Ofi. Gli occhi da statua greca, diretti in un punto metafisico d’una sala di museo, erano però soltanto quelli di Kolitsidakis e Dimitriadis. L’asso del Panathinaikos Dimitris Saravakos era, invece, fortemente calato nell’oggi e che fosse un greco non se ne sarebbe accorto nessuno incrociandolo per strada. Epperò, in campo, era un ottimo attaccante, un Keegan del Peloponneso. Quanto a Stylianos Manolas, difensore dell’Aek e zio di Kostas, attuale difensore centrale della Roma, avrebbe ben figurato come servitore tra i Proci, al tempo del ritorno d’Ulisse.

Dunque, a ben vedere i tratti ellenici s’erano quasi del tutto dissolti e la situazione è migliorata un poco nei primi anni del 2000 con una piccola colonia greca istallatasi in Italia, vale a dire Zisis Vryzas, al Perugia nel 2000, Grigorios Georgatos giunto all’Inter nel 2001 e Giorgos Karagkounis sempre all’Inter nel 2003: dei tre soprattutto l’ultimo, il centrocampista dell’Inter, si mostrava degno – come mantenimento dei tratti – del proprio passato. V’è, tuttavia, da dire che Georgatos, con una clamide addosso, l’idea d’un suo passeggio lungo la Stoà di Attalo l’avrebbe potuta sollevare. E furono tre bravi calciatori, distanti dalle assenze metafisiche e calcistiche di Anastopoulos. Vryzas era un cesellatore, ma anche uno che palla-al-piede arrivava dove diceva lui. Forte fisicamente, ben adatto all’urto, dotato di tocchi a ripetizione, era capace d’imbeccare un compagno in inaudite profondità e, oltre a questo, osare dribbling e tunnel spontaneamente, comunicando divertimento e gioia. E tutto questo da un greco io non l’avevo mai visto fare. Un’ebbrezza dionisiaca s’imponeva con lui in campo. Delle vere preziosità i suoi effetti mancini e le sue punizioni a sfumare chiome e teste collocate in barriera e anche l’incrocio dei pali. Perugia, Fiorentina, Torino le sue squadre in Italia. Quanto a Grigorios Georgatos, osava bene le discese sulla fascia sinistra e se ricordava un po’ Cristos Ardizoglou dell’Aek, non era ciondolante e un po’ scomposto come quest’ultimo. Per onestà è da ricordare che uno come Ardizoglou corse per tutti gli anni ’80 (e forse sta ancora correndo lungo rettilinei e sentieri impervi della Grecia attuale). Altro che le due fasi con lui in campo! Ardizoglou fu terzino sinistro, esterno di fascia, tornante, un po’ il madridista Gordillo ma del Partenone. Oltretutto in tempi in cui di tutto questo, ovvero le due fasi, nemmeno si parlava e la tattica non era così sofisticata anche negli emisferi cerebrali degli osservatori.

Piedi buoni, fondamentalmente, Georgatos tentava spesso tiri liftati ma anche d’una potenza diagonale un po’ alla buona. Sulla fascia sinistra egli fu il secondo testa rasata – o calvo in proprio – dell’Inter dopo Roberto Carlos. Venendo poi a narrare Giorgos Karagkounis, si può dire che di lui emergeva la concretezza nel gioco e questa si poteva cogliere già dal fisico compatto, da evidenze muscolari che lo inquadravano alla perfezione nelle fasi roventi dei contrasti e questo sia nell’elaborazione d’una tessitura o nel ripiegamento a fortilizio. Potente nel tiro, sapeva anche essere astuto nelle punizioni. Si può affermare che con lui i tratti ellenici raggiungono il 2000: si prolungano fino a condurci nelle regioni del sogno. Si tratta di quanto nelle Sale di Museo non s’ammira accanto ad un Apollo, ad un Dioniso, o al famoso busto di Pericle, opera di Cresila, ma piuttosto di quanto ci è noto come eroismo minore, non assolutizzato, ovvero quel marmo pario il cui cartiglio potrebbe svelare la sintesi Uomo della Tessaglia, Volto di Corinto, Giovane cretese e, ancora, Guerriero ferito. Se isolo, in una striscia orizzontale, gli occhi di Giorgos Karagkounis, la fissità evanescente e sommamente greca s’avvista, ed è questo che apprendo con sollievo. Fino qui il sogno, la storia, i dedriti luminosi d’un tempo più che archiviato.

Venne poi la stagione di Traianos Dellas. L’abbinamento di costui con il mitico “uomo col borsello” degli anni ’70, fenomeno tutto italico, molto romano per la precisione, risultò un fatto. Quando lo vedevo in campo, sulla divisa avvistavo proprio il borsello a tracolla, dalla forma rigida e d’una conciatura “similpelle” che metteva i brividi. Lui staccava di testa ed io vedevo il borsello ondeggiargli sul fianco e magari finire addosso all’avversario. Egli era quanto di più burocraticamente anonimo potesse apparire nei primi anni del 2000 sulla scena italiana. Mi catapultava all’indietro in una Roma viva, colorata, pulsante d’esistenze non frenetiche. Traianos Dellas, senza saperlo, riportava alla luce un tipo umano preciso, un uomo meticoloso, giuridico in proprio, cavilloso, impiegato di ministero o contabile privato in una aziendola con retrobottega. Ecco, lui poteva essere un contabile da retrobottega, soprattutto a Piazza Vittorio – via Principe Amedeo al sommo – ma anche all’inizio di via Nomentana. Potente fisicamente e un poco impacciato nell’appoggio, era cosciente che le sue qualità erano la statura ed il giocare semplice. Provavo tenerezza quando si spostava in avanti per andare allo stacco di testa. Sembrava un uomo attempato in mezzo ad una linea difensiva di spensierati fotomodelli che lo riconoscevano, forse, come un padre. Il suo scenario clamoroso sarebbe stato Piazza Vittorio, via Napoleone III, via Principe Amedeo, via Filippo Turati, la delegazione di via Ferruccio, vicino Piazza Dante, con il vecchio impiegato che dava istruzioni su come richiedere documenti e fissare la foto sul foglio di carta bollata. Eccoli i luoghi dell’uomo col borsello negli anni ’70.

Dunque, per me Dellas più che rinnovarmi una qualche idea legata alla filosofia, mi smuoveva dentro cose viste, toccate, volti, comportamenti e un linguaggio meticoloso e bacchettone. Inoltre, a uno come lui, non sarebbero sfuggite, nell’arco lungo degli anni ’70, le sale da ballo, perché aveva proprio il fisico e lo sguardo d’un frequentatore di sale da ballo con tanto di lampadine adorne di tese con carta colorata. Un infinito carnevale, insomma, tra servette, cassiere di cinema e fatalone in libera uscita. Oggi ci confrontiamo con tratti nuovi, quasi aggiornati al moderno, e dunque riecco Kostas Manolas della Roma, uno dei più implacabili marcatori a uomo che vi sia in circolazione e di sicuro uno dei migliori difensori ellenici di tutti i tempi nel ruolo di stopper, pardon, di difensore centrale. Anche con Manolas, comunque, si respira aria di modernità, anzi di postmodernità e dunque non pare esservi più l’atmosfera dell’Ellade serena, dello sguardo smarrito e metafisico, con occhi dall’iride velata come se si desiderasse porre un filtro tra l’io e la realtà. Con Vasilis Torosidis, con il suo sguardo, emerge la parte povera ed efficiente del greco, pastore o uomo fedele, attratto dall’evento fantastico della natura. Ecco, Torosidis è il meno adatto per la città, sì, in vero, per il promontorio, per il verde in saliscendi attorno ad un Tempio o una spianata mitica. E il suo sguardo è sempre proteso verso il mare e dormire sui gradoni del teatro di Epidauro, gradoni carezzati dal verde di natura, sarebbe un sogno a portata di mano. Quanto alle attitudine calcistiche, le sue vittorie greche sono state tutte con l’Olimpiakos: egli è un terzino d’appoggio, non veloce per costituzione, non alla Cafu, dunque, e nemmeno alla Zebina, potente e veloce quest’ultimo anche se, una volta giunto a tre quarti campo e oltre, si smarriva. Torosidis possiede comunque un senso della posizione ed anche quello dei suoi limiti. E allora si può dire che il suo essere diligente è il vero valore e lo colloca sempre nella regione della sufficienza.

Chi è rimasto ancora? Un certo Panagiotis Tachtsidis, ora al Verona, rappresenta il continuo smarrimento, l’ennesima perdita dei tratti, dei caratteri originari e ciò che s’innalza è l’adeguamento all’età contemporanea anche nelle pose che, più di rivendicare un’origine, sono prese direttamente dai magazine, da sollecitazioni fashion. Zeman preferiva lui a De Rossi probabilmente per questioni di età ma anche, credo, per un’estrema idea interiore. Una testardaggine non proprio lirica. Il fatto che Tachtsidis cambi squadra continuamente non lo pone sullo stesso piano dei già citati eroi greci. Con Panagiotis Georgios Kone, calciatore albanese naturalizzato greco, attualmente in forza all’Udinese, s’avvista la stessa intransigenza di sguardo di Manolas, anche la chioma è delineata nello stesso modo. Si tratta d’un combattente in mezzo al campo, con notevoli doti acrobatiche, un copritore di zone, un puntello anche per le fasi offensive. E a questo punto, chi manca? Oh, naturalmente un portiere! Si sono narrati molti ruoli ma un guardiano del Tempio ancora no. È la volta, dunque, di Orestis Karnezis vittorioso in Grecia con il Panathinaikos e ora in porta con l’Udinese. Egli si presenta con un collo maestoso e uno sguardo dritto sull’obiettivo, un po’ nel codice artistico dei volti in marmo pario, allineati nei musei o appena riemersi a Corinto o Rodi. L’assenza di sorriso, almeno nelle foto che ce lo donano tra i pali, sembra comunicarci, in un modo molto greco, che c’è veramente poco da ridere. Tra i suoi trent’anni e i trentatre di Vassilis Konstantinou, portiere del Panathinaikos e della Grecia agli Europei del 1980 in Italia, v’è tutta l’esplosione del benessere o, se si vuole, della téchne, ovvero i ritrovati della scienza e il prolungamento della giovinezza. In quei tre anni, vi è tutta l’evidenza del divenire e il tempo ha già compromesso Konstantinou. Se s’allineano i due volti, Konstantinou sembra il padre di Karnezis. Per Lazaros Cristodouloupoulos, centrocampista del Verona, la Grecia irrompe nuovamente tra noi anche se costui ha molte facce. Egli dona il meglio di sé con la chioma raccolta all’indietro, lustra, e a quel punto le sue sopracciglia si sfumano e s’adeguano ai giusti tratti puntuti. La mutevolezza dello sguardo dipende dalla chioma: con i capelli lunghi le sopracciglia si lasciano folte e allora la contemporaneità cala tra noi in modo evidente e irrompe la “retorica osvaldiana” di barbetta rada e zuccotto di lana nel già visto ovunque, anche nel nostro metafisico “sotto casa”. Pure, Cristodoulopoulos sa mostrarsi “scapigliato”, e allora un altro viso compare ed egli perde molto della sua grecità divenendo “semplicemente” balcanico, un giostraio al tramonto. Egli non è identificabile precisamente come ruolo, né mi soddisfa la sintesi “centrocampista” che è qualcosa di più – almeno nell’accezione d’una volta – di qualcuno che corre. E’ forse un Giannis Kirastas? Un Takis Nikoloudis? Si trattava di interditori e ragionatori alla buona e credo che Cristodoulopoulos possa sintetizzare i due centrocampisti degli anni ’80 aggiungendo più forza fisica e più competenze tattiche. Ma dopo Puskas, Herrera, Lorenzo, Zagalo, Michels e da noi Rocco e Liedholm, cos’altro c’era da insegnare se non il già detto, la tradizione?

Cristodoulopoulos è un copritore di manovre altrui ed è sempre in pressing sul senso, sul tempo. Ad apparire con la chioma corta è Vasilios Karagounis della Reggina, classe 1994, difensore, ovvero colui che più di tutti dovrebbe sentirsi a casa, in Magna Grecia, ad un niente da un qualsiasi tiranno di Siracusa urlante dal teatro o altro sito nobile. Direttive del sogno: Vasilios Karagounis che, terminato l’allenamento, raggiunge un promontorio e, carte alla mano, studia la traiettoria dei veri e comunque mitici viaggi di Platone in Sicilia. Come non sorridere di questa mia fantasia? È rimasto qualcosa d’antico nei tratti di questo difensore della Reggina ed è per questo, forse, che gli accredito la possibilità di escursioni classiche e formative su un promontorio a proposito di quelle figure universali del tiranno e del filosofo. Ad osservarlo bene, con i suoi 1,76 centimetri, è distante dai difensori greci che, nel 2004 in Portogallo, trionfarono nel Campionato d’Europa. Il più basso era Stylianos Venetidis con 1,76 centimetri, mentre tutti gli altri erano veri colossi di Rodi, ad iniziare da Traianos Dellas con i suoi 197 centimetri, per continuare con i 188 centimetri di Takis Fyssas, i 187 centimetri di Nikos Dabizas, i 185 centimetri di Giourkas Seitaridis, i 184 centimetri di Giannis Goumas e inoltre Michalis Kapsis alto 182 centimetri. È anche vero che marcatori ed incursori devono anche essere agili e a loro non è richiesta una statura da museo. Del resto, agilità e sveltezza sono doti anche dei difensori e proponenti la fase offensiva. Il nostro Antonio Benarrivo, uno degli eroi di Usa ’94, non era un gigante di statura ma lo era nella concretezza e infatti pesava molto sulla fascia, instancabile e ottimo anche in marcatura. S’arriva dunque al viso dei visi, dal mio punto di vista: Josif Cholevas, nazionale greco della Roma, terzino giunto nell’Urbe a trent’anni. Il volto pare quello d’un paraguaiano, d’un cileno, di quelli che in campo hanno sempre accanto nomi come Cañete, Aquino, Delgado, Sandoval, Sanchez, e questi suoi tratti derivano dall’unione tra suo padre, greco, e sua madre, tedesca e d’origine statunitense. Provocazione: mettiamo Nicola Amoruso di fronte a Cholevas e poi parliamo di mondo greco. Sarebbe l’ex terzino dell’Olimpiakos il primo a spaventarsi vedendosi di fronte l’Iliade. Nicola Amoruso è il vero e unico greco che ha giocato nel campionato italiano, questa la mia riflessione. Sbandierare ovunque la grecità di Amoruso! Quando gli osservo il viso, anche fuori dal campo – ormai lui un reduce – ecco che il profilo di un uomo su un kantharos, m’appare. Con l’Olimpiakos Chovelas ha vinto tanto, vale a dire quattro scudetti e due coppe di Grecia, ma ogni volta che m’imbatto in lui l’interrogativo che mi pongo di continuo è dove stia più il greco, quello vero se ha ancora un senso parlare in questo modo, vale a dire come conservazione dei tratti originari, all’alba dell’Occidente.

I finnici sono ancora tali, così come pure i norvegesi e gli irlandesi (ma il mastino Paul Mc Grath nella nazionale di Jackie Charlton?). Lo stesso gli svedesi (con alcune eccezioni, come ad esempio Martin Dahlin ed Henrik Larsson, entrambi medaglia di bronzo ai Mondiali di Usa ‘94). A resistere sono poi i sudamericani – l’inattacabile pampa e la Cordigliera – mentre gli africani dicono grandemente la loro, come pure russi e cinesi. Per il resto, pare che non si possa più distinguere una precisa origine antica. Ma la verità è che, al di là dell’idea giusta dell’amore planetario, vorrei, almeno su un campo di calcio e per i luoghi dell’Occidente antico, ri-vedere i tratti come quelli restituitici dai reperti: statue, mosaici, monete, vasi. È un’illusione ma quanto sarebbe bello osservare i greci antici, i tratti fenici, come da noi si riproposero i tratti di Pompeo in Ciccio Cordova e ancora resistono i Fabi (Alessandro Nesta), e poi i romani del tempo di Cesare (Mussi, Apolloni, Cannavaro, De Rossi), la frangetta da cursus honorum di Agostino Di Bartolomei, il volto aristocratico di Lionello Manfredonia, l’elmo greco nella fronte del mister Luigi De Canio (e dunque la Magna Grecia dinanzi agli occhi e all’animo), i tratti apuli di Nicola Ventola. E inoltre Alan Boksic nell’epopea di Diocleziano, un uomo di Gerusalemme al tempo di Erode (Fabio Liverani) e, da ultimo, il trionfo del neolitico con Antonello Cuccureddu e Gianfranco Zola. Ma potrei continuare per righe e righe, instancabilmente. Da ultimo: Angelos Charisteas – un’altra fuga dalla Grecia fino a Brema, con il Werder – un bel gigante ellenico, con tratti discretamente conservati. Si storicizzò al 57esimo minuto del 4 luglio 2004 nella finale degli Europei con il Portogallo. D’intorno s’afferma che oltre quel gol storico non abbia più combinato molto altro. A vedere la sua biografia ha vinto soprattutto in Germania e se qualcuno afferma che non sia stato un bomber, si può anche accordare ragione al nostro interlocutore ma l’importante, nella vita di Charisteas, è che l’unica statua vera a se stesso se l’è scolpita da solo e precisamente al secondo minuto del secondo tempo battendo il portiere lusitano Ricardo.

Il fatto è che cerco sempre d’aggiornare l’antica grandezza ma tutto oggi pare scontato e, oltretutto, inutile fuori dei circuiti e dei codici mediatici. Angelos Charisteas, dunque, come un greco antico? Neanche in sogno, purtroppo! Si provi a ricordare all’Europa e al mondo di che cosa siano stati capaci i greci. Non ci risponderanno i Capi di Stato, braccati dall’ansia della vita, impegnati ad illudersi di sconfiggere la morte donandosi totalmente all’efficienza e al rigore, alla téchne, ma soltanto gli studiosi di Oxford e di Yale, mai un greco, uno del posto – storici ripresi nel tepore d’un interno sicuro con luce attenuata e sullo fondo loculi di libri col dorso in pelle e dorature. Un ambiente riscaldato con colori muschio addosso e, come massimo della stravaganza, il lilla. E poi giacche Harris tweed su pullover e camicie nelle diverse sfumature del bosco. Ecco, dunque, fatta fuori la Grecia e allora è giusto che io continui a frugare nei campi di calcio in cerca di volti, di quel volto che mi catapulti definitivamente nel mio Passato.

 

 

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