“Uccidetelo se è colpevole, uccidetelo. Così smetteremo di sperare inutilmente”. Le parole di Amina al-Raeyee riecheggiano rimbalzando con un’eco secca come una schioppettata tra le mura della stanza dipinta di fresco da pochi giorni. A Sana’a, capitale dello Yemen, shara Zubairi è una delle arterie più affollate a tutte le ore. Siamo all’ultimo piano di un edificio che lungo i suoi cinque strati assomma uffici di ogni genere: dalla clinica oftalmica, al tribunale locale, agli studi di avvocatura. Amina, che adesso è circonfusa dalla luce del pomeriggio yemenita, una luce dorata e calda, riflessa dal bianco accecante delle pareti, è quel che si dice una “sorella coraggio”. Suo fratello Salman è detenuto a Guantanamo da tredici anni e Amina ha scontato sulla sua pelle, prima di tutto, la riprovazione sociale. (…)
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