Tra i rifugiati siriani in Libano. La morsa del gelo, le restrizioni sugli ingressi e il lavoro dei bambini – di Maria Camilla Brunetti

È un impasto di fango, il sentiero che porta alla tenda di Hanut. Una melma alta tre spanne e, a bordo dei viottoli, c’è mezzo metro di neve. Un freddo secco, tagliente. Siamo nei pressi di Zahle, valle della Bekaa, pochi kilometri dal
confine con la Siria.

Zahle 11La violenta tormenta che si è abbattuta la scorsa settimana nella valle, rendendo molte strade inagibili e ancora più dure le condizioni di sopravvivenza per le centinaia di migliaia di rifugiati, ha trasformato gli insediamenti in acquitrini di fango, demolendo diverse baracche, spalancando i fragili tetti di assi di legno.

Hanut ci lascia entrare nell’unica stanza in cui vive con tre dei suoi cinque figli. A terra è una pozzanghera gelida e dal tetto aperto in molti punti colano rivoli d’acqua della neve in lento scioglimento. La donna ha cinquant’anni, è di Homs, è arrivata al campo due anni fa.

“Mio marito è morto poco prima che fossimo costretti a lasciare la Siria, Talal il mio figlio più grande, di venticinque anni è detenuto da più di due anni nelle carceri del regime. Sono sola qui, con gli altri bambini”.

Nella penombra della stanza sentiamo tossire violentemente e vediamo due dei figli distesi a terra, su un materasso sottile. “Si sono ammalati per il freddo e i soldi per comprare altre provviste di legno per la stufa sono finiti. La neve ha distrutto parte del tetto e il freddo è insopportabile. Sono giorni terribili”.

Unhcr già dallo scorso ottobre ha iniziato il programma di distribuzione di coperte, materiali isolanti e  voucher per l’acquisto di legna ma le condizioni estreme di uno degli inverni più freddi degli ultimi decenni ha reso insufficienti le misure di emergenza.

Turki, 46 anni, il responsabile della scuola del campo costruita grazie al supporto dell’ong libanese Beyond in collaborazione con Unicef, ci dice “dopo la tempesta di neve abbiamo provveduto a portare coperte, vitamine per i bambini e nylon isolante per le tende del campo e ogni settimana c’è una clinica mobile che fornisce agli abitanti medicinali di prima necessità ma è collassata qualche giorno fa per la violenta nevicata”.

zhale 8A qualche passo dalla baracca di Hanut incontriamo sull’uscio Maad, 32 anni, originario di Idlib. Ci lascia entrare nella stanza in cui vive con la moglie Maria di 25 anni e i quattro bambini, Lilian di sei anni, Bassel di 4 e Rim di un anno e mezzo. I tappeti al suolo per isolare dal gelo della terra nuda sono fradici e al centro della stanza vicino alla piccola stufetta che non riesce a riscaldare l’ambiente vedo un neonato avvolto in due strati di coperte.

La piccola Bissan ha solo un mese di vita e una testolina piena di capelli neri. Quando Maad la guarda vedo la gioia di un padre orgoglioso per tanta bellezza e il terrore di non essere in grado di proteggerla.

“A Idlib lavoravo come capo cuoco e pasticcere in un ristorante ma da quando siamo stati costretti a lasciare la città, da più di due anni, non sono riuscito a lavorare. Ogni tanto c’è qualche piccolo lavoro nei cantieri o d’estate nei campi per la raccolta. Ho provato a chiedere a tutti i locali della zona per avere un lavoro regolare, più costante, ma per noi è impossibile.”

Vivono con i due voucher che le Nazioni Unite forniscono alla madre e alla neonata, quaranta dollari complessivi al mese. L’affitto della baracca in cui vivono è di centotrenta dollari al mese ma Maad, da quanto il fratello che viveva con loro è morto di cancro quattro mesi fa, non riesce più a pagare. “Tutto quello che vedi nella stanza mi è stato prestato da famiglie della zona o ci è stato regalato e io ora sono responsabile non solo per la mia famiglia ma anche per quella di mio fratello, per sua moglie e i suoi tre figli. Mi dite come faccio? Ditemelo.”

Fuori dalle baracche le donne escono a stendere i panni, in questa prima giornata di sole dopo settimane di tempesta. I bambini giocano nel fango, alcuni di loro indossano solo ciabatte di plastica.

Il signor Hadid ci invita a prendere un chai nella tenda in cui vive con la moglie e otto figli, pulisce per noi le sedie che dispone intorno alla piccola stufa. Dimostra molto di più dei suoi trentacinque anni. È originario di un sobborgo di Damasco, e vive al campo da un anno e mezzo. Il figlio più piccolo ha poco più di un anno.

“In Siria ero carpentiere, lavoravo regolarmente: ora riesco a trovare dei lavoretti d’estate, come raccoglitore nei campi e i voucher per i bambini non sono sufficienti per tutta la famiglia. Solo per l’affitto della tenda dobbiamo pagare 100 dollari al mese”.

L’unica stanza è scaldata da una stufetta in lamiera.

“Abbiamo bruciato di tutto per scaldarci; plastica, carta, legno, scarpe. Qualsiasi cosa pur di non morire di freddo”.  A terra, sul tappeto, vicino al padre e al fratellino c’è Sahar. La bimba ha sei anni.

“Anche lei d’estate lavora nei campi” continua il padre “preferiscono prendere i bambini a lavorare, perché non devono quasi pagarli e non si lamentano. Gli uomini non li vogliono perché ruberebbero il poco lavoro che c’è ai libanesi.”

Sahar ha sei anni, quindi, e lavora come raccoglitrice di patate per un dollaro e mezzo al giorno.

“A volte neanche quello” aggiunge Hadid “a volte solo un sacco di patate a fine giornata, ma quando la scuola ricomincia” continua “mia figlia torna a scuola. Non avrei mai voluto che fosse costretta a questa vita, ma la nostra situazione è disperata”.

Zahle 5Chiedo a Turki, che è il responsabile della scuola, quanti sono i bambini rifugiati siriani vittime di sfruttamento.

“Moltissimi, purtroppo” – conferma.

“Nei campi l’età media in cui iniziano è di quattro anni mentre per altri tipi di occupazione è sui dieci. Per gli uomini in età di lavoro ci sono pochissime possibilità di trovare qualcosa, mentre per i bambini è più facile perché i datori di lavoro possono pagarli molto meno e non portano via posti ai libanesi. Per i bambini che vivono nei campi vicino ad aree agricole il lavoro è quello di raccoglitori mentre quelli che vivono vicino ai centri urbani vengono utilizzati per lavori di carpenteria nelle costruzioni, nelle officine meccaniche o in qualche negozio”.

A 4 dollari ogni otto ore di lavoro. Esposti a rischi altissimi.

In tutto il Libano le scuole di Unicef e Beyond accolgono più di 17mila studenti per classi di sei ore al giorno; lezioni giornaliere di quattro ore, di matematica, arabo, inglese e storia e due ore di prevenzione. “Nelle due ore di prevenzione parliamo ai bambini ma anche ai genitori. Forniamo supporto psicologico per i traumi che hanno subito e anche prevenzione contro le forme di violenza e sopruso di cui i rifugiati sono costantemente vittime. Cerchiamo di aiutare i genitori a proteggere i figli, a renderli consapevoli dei pericoli che corrono lavorando. Per tutti i bambini che durante il giorno non possono essere a scuola ci sono classi anche durante il pomeriggio”.

I corsi delle scuole dei campi non sono regolarmente riconosciuti dal sistema scolastico libanese, “sono dei corsi per rendere i bambini idonei a poter essere ammessi nelle scuole ufficiali” aggiunge Turki “e anche se non dovessero riuscire a frequentare le scuole almeno garantiamo ai piccoli una forma di educazione e di supporto”.

Beyond organizza per i bambini rifugiati anche attività ricreative, con classi di musica e di teatro. Il 12 giugno scorso, nella giornata internazionale contro il lavorativo minorile, è stato organizzato un grande evento di sensibilizzazione con più di tremila persone.

Seduta insieme a noi attorno alla piccola stufa c’è anche Tamam, 32, una delle maestre della scuola. Siriana di Qusayr, è arrivata qualche mese fa, fuggendo dal campo in cui viveva ad Arsal, in seguito ai durissimi scontri di agosto tra l’esercito libanese e uomini presunti affiliati a gruppi estremisti del fronte Nusra operativi nella regione. Il campo in cui viveva fu bruciato al suolo.

Il cinque gennaio scorso, il governo libanese, ha istituito nuove restrizioni per l’accesso dei rifugiati siriani nel territorio. Ora per entrare in Libano – che dai dati Unchr è il paese con la più alta percentuale di profughi al mondo rispetto alla popolazione – i cittadini siriani avranno bisogno di un visto ufficiale e ottenere un permesso di lavoro sarà ancora più difficile. Dall’inizio della guerra in Siria, ormai entrata nel suo quinto anno, il Libano sta ospitando più di un milione e cinquecento mila rifugiati, per una popolazione complessiva totale di poco più di quattro milioni. Le già deboli infrastrutture interne sono al collasso e in aggiunta a questo la crisi economica del paese sta portando la popolazione locale a livelli di povertà allarmanti. Sono sempre più numerosi gli episodi di insofferenza e di aggressione nei confronti della popolazione siriana – a maggioranza sunnita – rifugiata in Libano e tornano vividi gli spettri di scontri a matrice settaria dei quasi vent’anni di guerra civile libanese.

Zahle 1Usciamo nei viottoli del campo e poi sulla strada asfaltata per visitare altri accampamenti della zona. Vediamo baracche collassate, panni stesi su assi di legno fradicio. I bambini sono fuori a giocare a palle di neve nel fango, si godono gli ultimi minuti del sole che oggi è arrivato per portare un po’ di luce. Ridono, nei maglioncini leggeri, hanno carrozzine rotte dove caricano qualche bottiglia d’acqua da portare alla baracca e fucili di legno con cui giocano alla guerra.

Chiedo a Turki cosa pensi di questa nuova restrizione agli ingressi. “Per il governo libanese” dice “sicuramente avrà degli effetti positivi. È indiscutibile che la presenza di più di un milione di rifugiati in un paese così piccolo e con già enormi problemi al suo interno sia un grave onere da sostenere ma per i rifugiati le condizioni diventeranno ancora più dure. Molti di loro hanno le famiglie o parte delle famiglie in Siria e diventerà quasi impossibile mantenere i contatti. Molte persone, per curarsi, rientravano per qualche giorno nel Paese perché lì le cure mediche sono gratuite e ora anche questo sarà impossibile. Noi abbiamo cinquanta team di supporto medico in tutto il Paese, forniamo i vaccini di base e cerchiamo di monitorare costantemente i casi più gravi e le condizioni generali dei campi ma l’emergenza sanitaria rimane altissima”.

A Homs, dove viveva, Turki era proprietario di una società di prodotti elettronici. Dava da lavorare a più di seicento persone. La fabbrica era sulla frontline ed è andata distrutta due anni fa nei bombardamenti. Nel deposito della fabbrica c’erano prodotti elettronici per centinaia di migliaia di dollari. Non è rimasto più niente. “Ho perso tutto ciò che avevo. Vent’anni di lavoro e di guadagno. Una vita intera. Sono riuscito a portare in salvo qui tutta la mia famiglia, compresi i miei genitori anziani. L’anno scorso mio padre è morto e dopo dieci giorni, per il dolore, se ne è andata anche mia madre. Questa è la cosa più umiliante, la più insopportabile. Dovere morire lontani dalla propria casa”.

 

photo credit: Maria Camilla Brunetti

About author