Venerdì 5 dicembre ho visto il film Bhopal. Prayer for the rain, uscito in prima mondiale a trent’anni dalla più grande catastrofe industriale della storia. L’ho visto in un cinema assurdamente lussuoso di Calcutta (sedie reclinabili con appoggiapiedi come in aereo prima classe e tavolino), dentro un mall, un centro commerciale, uno di quei posti in cui paradossalmente nessuno degli indiani di cui parla il film potrà mai permettersi di andare. Avevo pensato di proporre a dei giornali italiani un mio reportage da fermo, ascoltare e registrare le reazioni del pubblico indiano alla fine del film; non lo farò, forse è meglio così, perché dovrei dire che la sala era semivuota, che l’India quanto a conservazione pubblica della memoria, quanto a strategie di distrazioni di massa, non ha motivo di fare eccezione. Per non dire di quei milioni, comunque sia, esclusi dal circuito dell’informazione, ciò che fa sì che una tragedia così, un tentato genocidio di poveri come quello di Bhopal, potrebbe virtualmente sempre ripetersi. (Ci sono altre sale di cinema a Calcutta, dette “governative”, il cui ingresso costa poche rupie, fetide e bellissime, come le definisce un amico. Ci sono passato: le locandine dei film sono le stesse dappertutto, quelle di Kamasutra 2, le cui immagini promettono quello che il titolo annuncia. Nessuna traccia di Bhopal tra i film per poveri)
Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984, a Bhopal, nello stato indiano del Madhya Pradesh, la fabbrica americana di pesticidi Union Carbide, che già normalmente produceva veleni letali per chi ci lavorava e inquinava terra e acqua coll’isocianato di metile, più noto con l’acronimo inglese Mic, fece fuoriuscire una nube di gas che provocò in pochissimo tempo decine di migliaia di morti e oltre mezzo milione di feriti, senza contare i danni permanenti anche nei nati di varie generazioni successive. Un libro di qualche anno fa di Dominique Lapierre e Javier Moro racconta contesto e tragedia come un thriller, Il était minuit cinq à Bhopal (Mezzanotte e cinque a Bhopal), e anche il film firmato da Ravi Kumar è una specie di thriller. Provoca negli spettatori, pur conoscendone la fine o forse proprio per questo, una tensione permanente. Ma ci sarà un motivo (estetico, quindi etico) se per illustrare questa mia breve cronaca non uso un’immagine del film “americano”, ma una fotografia della realtà in bianco e nero, più congruente.
La prima cosa del film che mi ha colpito è la prima inquadratura, cioè la data sapientemente isolata sullo schermo: 1984. È quasi un messaggio subliminale: l’anno di Orwell, l’anno della distopia, in questo caso della catastrofe che svela l’insensatezza assoluta e crudele del capitalismo tardoindustriale, dei meccanismi della nostra civiltà; che svela il circolo vizioso e demoniaco del profitto – fabbricare un prodotto che uccide i presunti parassiti, anzi che uccide l’erba, ed esserne le prime vere vittime, quelle umane.
Forse i pesticidi e i diserbanti servono proprio a questo, ti viene da pensare, a sterminare i disgraziati che lavorano alla fabbricazione dei pesticidi, perché solo altri parassiti possono lavorare in circostanze di tossicità permanente all’unico scopo di sopravvivere e moltiplicarsi, fabbricando prodotti per sterminare presunti parassiti.
I parassiti – per uno strabiliante rovesciamento della logica che passa invece come apoteosi della realtà e quindi della razionalità – sono i poveri, vite gratuite disponibili al lavoro, qualsiasi lavoro; e il 1984 è l’anno in cui viene alla luce questo mai cessato genocidio, o pesticidio, questo circolo tossico così finanziariamente proficuo..
Una volta chiarito questo diventa sopportabile l’ennesimo affresco americano, o comunque western, della città indiana polverosa, dell’iconografia coll’immancabile cane in primo piano che si gratta, le mucche, i rifiuti, i bambini che giocano nel fango, i volti sorridenti malgrado la povertà, e il conduttore di risciò ciclabile magrissimo e affaticato col passeggero sazio e ciccione che cade rompendogli il risciò, come a dire l’ingiustizia. A me personalmente non disturba, mi commuovono perfino i cliché, mi commuovono le icone protettive delle divinità appese ai fili e ai tubi dentro l’orrenda fabbrica, come sono appese spesso ai rami degli alberi per strada. Ma alle mie amiche e amici indiani questa stilizzazione dà fastidio. Come il personaggio interpretato da Martin Sheen, un volto famoso, forse l’unico del cast, che dovrebbe essere il malvagio, principale responsabile dell’Union Carbide e quindi della fabbrica di morte, il boss Warren Anderson, il cinico venditore di diserbanti per aiutare, dice, i contadini indiani, e che in visita a Bhopal minimizza l’evidente tossicità dei prodotti della Union Carbide. In un abile comizio fatto dall’alto della fabbrica agli operai indiani situati in basso, parla come un cowboy citando la retorica del lavoro, della solidarietà e del cuore (toccandosi il petto), facendoli commuovere. Ai miei amici indiani questa spettacolarizzazione americana dà fastidio, e hanno ragione riguardo al personaggio, ma nell’ingenuità degli operai indiani che lo ascoltano ho visto l’ingenuità di noi tutti esseri umani viventi, da sempre affascinati dai cowboy e da chi si tocca il cuore. E poi il lavoro è lavoro, come sa il conduttore di risciò a piedi rimasto senza risciò, felice di essere assunto dalla fabbrica e di indossare l’inutile casco di operaio, felice di “appartenere”.
Ma di lavoro si muore, come sapevano con fredda efficienza i nazisti inventori dei campi. Il finale del film è infatti l’inizio di un film di zombi. E’ la parte più terribile ma anche la più bella del film. La vivace città dei poveri è una città di cadaveri, alcuni dei quali, ciechi, all’alba ancora camminano.
Sappiamo che quel luogo a distanza di trent’anni non è stato ancora bonificato. Che giustizia non c’è stata in alcun modo, e il responsabile principale Warren Anderson è morto comodamente di morte naturale in casa propria, senza essere mai condannato né estradato, così come non è stato mai estradato in India alcun responsabile di questa strage prevedibile e forse prevista, forse addirittura pianificata, costantemente smentita, mai risarcita, poiché gli indennizzi stabiliti da una sentenza per i morti sono irrisori (2000 dollari a persona). Il film si conclude con una scritta sullo schermo: “L’Union Carbide non ha mai chiesto scusa”.
Nel 2011 è stato premiato in numerosi festival un altro film, il documentario di Van Maximilian Carlson dal titolo Bhopali. Come sottotitolo ha questa frase: Il disastro non è avvenuto. Sta avvenendo. Quante piccole o piccolissime “Bhopal” sono attive in questo momento in India (e non solo), quante illegalità, corruzioni (senza le quali una Union Carbide non avrebbe potuto agire) si verificano ogni giorno?Soprattutto Bhopal non finisce con la fine di un film, e i suoi effetti continuano nel tempo, anche fuori dal cinema, da cui usciamo storditi e un po’ scioccati, nell’insensatezza del rumore della città e delle luci delle merci.