È un crocevia di destini, quello che Emanuela Zuccalà attraversa per dare corpo a “Donne che vorresti conoscere” (Infinito edizioni. Postfazione di Simona Ghizzoni). Un camminare accorto, umile perché teso all’ascolto più profondo, nei confini del vissuto di donne che la Storia avrebbe consegnato al silenzio e all’irrevocabilità. Molto più di una curata raccolta di testimonianze, il libro diviene un composito universo di voci che riverberano le une nelle altre, come eco distanti, a congiungere in un narrare solido il Mali alle coste siciliane, Gaza al deserto del Sahara Occidentale, Algeri alle periferie di Bucarest e Yeoville. Raccontare è avere la forza e la volontà di custodire tra le proprie mani, nelle parole e nello sguardo, le storie che ci vengono affidate. È una responsabilità di restituzione, partire da storie singole per restituire un universale. Un riconoscersi empatico. Un ascolto profondo che pone al centro della parola sempre la storia che viene data in consegna, mai il depositario. Questo fa Emauela Zuccalà. Ed è per questo suo rispetto che emergono nitide dalla pagina la voce di Hope e il racconto dei suoi anni di schiavitù sessuale a Torino e il suo riscatto finale, quella di Agnèse che sceglie di chiamare Chance il suo bambino – nato da uno stupro di militari nella sua Repubblica Democratica del Congo infestata da una guerra tra le più sanguinose del pianeta – affinché almeno lui abbia la fortuna di conoscere un mondo migliore, la voce di Elghalia che da Laayoune, nel Sahara Occidentale, arriva tra le nostre mani per dirci che la causa del popolo saharawi – la storia di anni di torture e imprigionamenti sotto l’occupazione militare del governo marocchino – è molto più grande di qualsiasi cedimento personale.
È un lavoro che indaga il senso del diritto e della giustizia negata, la potenza della memoria e della testimonianza. Sono percorsi privati che riescono a rendere l’immagine ultima di una storia collettiva a suo modo, accomunata – nelle differenze di ogni singolo vissuto – dal desiderio per ognuna di queste donne di potere scegliere il proprio destino con il coraggio e la grazia di chi, alle proprie spalle, non aveva altro che la mano prevaricatoria di tempi e regioni di violenza e sopruso. Perché, come giustamente ricorda l’autrice, lottare per i diritti delle donne in molte parti del mondo significa ancora semplicemente lottare per i diritti umani.
Ne abbiamo parlato insieme all’autrice
Di donne, di madri e di figlie tratta “Donne che vorresti conoscere”. Un attraversamento che dall’Italia arriva in Mali, dalla Cambogia alla Palestina, al deserto del Sahara. Hai raccolto in questo volume storie di grande eterogeneità, unite da un fil rouge forte e ben visibile. La volontà comune a tutte le donne di cui hai raccontato, di resistere ai torti subiti, di ricominciare, di chiedere verità e un futuro per le proprie vite. Quando e come è nata l’idea di questo libro?
Ho sempre scritto storie, inchieste e reportage con un taglio al femminile e in tanti anni ho avuto la fortuna di incontrare diverse donne speciali. L’idea di raccogliere alcune delle loro vicende in un libro c’è sempre stata: uno degli aspetti del giornalismo che mi sta sempre più stretto, infatti, è il ciclo di vita brevissimo che hanno le storie che raccontiamo. Le voci che restituiamo nascono e muoiono dentro un articolo, e raramente lasciano memoria, poiché ne arrivano sempre di nuove a riempire le pagine dei giornali. Difficilmente abbiamo tempo, spazio e occasione per approfondire: una condizione strutturale del flusso delle notizie. Però le storie delle persone sono vissuti reali e meritano molto di più. Con un libro è diverso: si fissano le storie, le si fanno rivivere potenzialmente per un pubblico più vasto, le si colloca in un contesto più universale e, si spera, duraturo.
Il senso di “giustizia” mi pare possa essere una chiave importante del lavoro. Restituire una verità personale – contribuire con questo alla costruzione di una memoria collettiva – in che modo riesce a indagare il senso di una giustizia sottratta dalla Storia, manchevole, assente, o terribilmente ambigua e complessa?
Nel mio invincibile idealismo, resto convinta che raccontare le storie di persone che comunemente non fanno notizia possa rappresentare un primo passo per dare loro una porzione, seppure piccola, di giustizia per gli abusi subiti. In questo libro ci sono tanti volti che mi hanno accompagnata lungo gli anni, senza che riuscissi a dimenticarli, e non volevo che restassero solo nella mia testa. Agnèse, una delle donne incontrate in un campo di sfollati a Goma, in Repubblica Democratica del Congo, riusciva a sperare nel futuro persino dopo aver subìto un efferato stupro di gruppo che l’aveva stracciata nell’anima e quasi uccisa. E il suo futuro era il neonato che teneva in braccio, il frutto di quella violenza, che lei riusciva ad amare in quanto creatura innocente. Elena Gorolova, una donna di etnia rom della Repubblica Ceca, sterilizzata a sua insaputa come tante altre rom nel suo Paese, è diventata testimone pubblica di quello scempio di Stato vincendo la vergogna e raccontando la sua storia in giro per il mondo: ma la sua giustizia più importante è il senso di aver riconquistato la propria dignità, che le era stata strappata con la violazione del corpo. Meriem Bélaala, la psicologa algerina che, per prima, ha aperto nel suo Paese un centro d’accoglienza per donne vittime di violenza, è un’eroina dei nostri tempi ed è un peccato che il suo volto non sia noto quanto quello di altre femministe algerine. Così come il volto di Nice, che nel sud del Kenya lavora per debellare le mutilazioni genitali femminili restituendo l’infanzia alle bambine e convincendo le famiglie a farle studiare, innescando così un circuito virtuoso di sviluppo nella sua comunità. E poi ci sono Patrizia e Angela Manca, che forse più delle altre sono emblemi di lotta per la giustizia: la prima sta dedicando la sua esistenza a ridare dignità e giustizia alla madre ritrovata; la seconda combatte per ottenere finalmente verità, dopo dieci anni, sulla morte del figlio.
Uno degli aspetti che ho più apprezzato del lavoro è la vostra volontà di raccontare l’aftermath di queste vite. Quello che resta quando si smette di parlarne, quando i riflettori si spengono e il mondo dimentica. Una narrativa di coloro che restano, di cicatrici e ferite che rimangono a testimoniare il vero del quotidiano e il peso della memoria. Che importanza ha il senso della restituzione della memoria nel tuo lavoro?
Io non sono una cronista di guerra ma mi sono ritrovata spesso a raccontare le conseguenze delle guerre sugli individui, e sulle donne in particolare. Quando una guerra termina, raramente se ne continua a parlare: è successo con la ex Jugoslavia; succede con tutte le guerre d’Africa, con l’Afghanistan, e presto accadrà anche con la Siria e l’Iraq. Quelli contemporanei sono però conflitti orfani di una linea del fronte netta, e dunque anche di una parola “fine” da poter apporre una volta per tutte. Nella Repubblica Democratica del Congo proseguono le sanguinose scorribande dei ribelli, e si continua a morire in Repubblica Centrafricana, nel nord del Mali, per non parlare della Libia e della Somalia. Sono guerre troppo recenti per poter parlare di memoria ma credo che, cominciando a raccontare le vittime e le loro ferite a lungo termine, si possa iniziare a comprendere i conflitti dei nostri giorni meglio che attraverso le pure cronache. Un aspetto che mi ha sempre interessata moltissimo è la condizione dei profughi, che rappresentano l’effetto più evidente dei conflitti, la ferita collettiva più difficile da rimarginare: oggi, nel mondo, i rifugiati hanno raggiunto il numero più alto dal tempo della Seconda guerra mondiale, 51 milioni. Penso che parlare di loro, capire cosa provano e come tentano di superare i propri traumi, possa essere anche una strada per comprendere meglio i fenomeni migratori e, passo dopo passo, fare piazza pulita degli stereotipi razzisti sugli immigrati.
“Solo per farti sapere che sono viva” il documentario che hai realizzato insieme alla fotoreporter Simona Ghizzoni, raccoglie le testimonianze di dodici donne saharawi del Sahara Occidentale, il trauma dell’invasione marocchina della loro terra. Nato con l’aiuto di un crowdfunding, è stato presentato in diversi festival internazionali. Puoi parlarcene?
Anche questo lavoro fa parte del capitolo aftermath, un tema su cui Simona e io abbiamo intrapreso insieme un percorso di ricerca. E la storia del popolo saharawi rappresenta un osservatorio molto interessante, da questo punto di vista: la loro storia, da un lato, appartiene al passato perché la guerra con il Marocco si è conclusa nel 1991, ma dall’altro è un conflitto a bassa tensione che prosegue e non cesserà finché non si terrà il referendum per l’autodeterminazione del Sahara Occidentale, sancito dal diritto internazionale ma osteggiato dal Marocco. Intervistando 12 donne tra il Sahara Occidentale e i campi di rifugiati saharawi nel sud dell’Algeria, abbiamo ricostruito una storia corale di questo popolo attraverso le voci e i diari delle donne. E’ una micro-produzione, realizzata appunto grazie al crowdfunding e a due grant che abbiamo vinto, alla quale ha dato un ritmo fondamentale la montatrice Aline Hervé, che ha contribuito attivamente alla costruzione della narrazione. Ad alcune proiezioni, in Italia e all’estero, abbiamo avuto gruppi di marocchini a protestare contro il film, gridando che ciò che raccontiamo è falso, ma senza portare alcun argomento: ce lo aspettavamo, visto che durante il mese che abbiamo trascorso nel Sahara Occidentale occupato siamo state pedinate ogni secondo da agenti marocchini. E queste proteste suggeriscono che abbiamo toccato un nervo scoperto.
Ho trovato molto interessante, nel capitolo in cui parli del lavoro della regista palestinese Dima Abou Ghoush, la riflessione sui confini che una realtà quotidiana di Occupazione crea nel vissuto della popolazione che la subisce. La prigione che entra dentro. Quanto è importante la narrativa nella costruzione di un immaginario collettivo che possa indagare e superare le privazioni di congiunture politiche traumatiche? Mi puoi parlare di “My beauty is dead to you”, il documentario che hai girato nel 2010 in Palestina?
Penso che la narrativa, ma anche il reportage giornalistico che vada in profondità, il fotogiornalismo di qualità, il cinema documentaristico, siano veicoli fondamentali, anche per gli stessi protagonisti delle storie, per guardare se stessi da un’altra prospettiva, riuscire a tenersi saldi nella propria identità e magari trovare una strada per andare oltre la sofferenza. Questa, almeno, è la speranza di molti di coloro che fanno il mio mestiere: incidere un pochino nelle vite delle persone che raccontiamo, fosse anche solo con il sollievo che diamo loro nell’ascoltarle.
“My Beauty Is Dead to You” è un corto di 25 minuti, realizzato sempre con Simona Ghizzoni, che parla della violenza di genere in Palestina: racconta vittime di abusi domestici, di detenzioni amministrative, di sopraffazioni da parte dei coloni a Hebron, in una terra in cui la violenza contro le donne diventa secondo noi un’aggressione al quadrato, poiché aggravata dalla congiuntura politica. Le donne palestinesi, al pari di tutte quelle che vivono in zone di conflitti, sono private della gioia di immaginare un futuro per se stesse e per i propri figli, oltre che costrette dentro confini artificiali. In questo contesto, la violenza domestica provoca in loro un sentirsi vittime profondissimo e spesso, purtroppo, invincibile: un sentirsi zero, e difficilmente poter di nuovo credere in se stesse. E’ su questo che ci siamo concentrate, cercando di tenerci lontane da qualsiasi ideologia sul conflitto israelo-palestinese. Il corto è stato un esperimento: dopo tanti servizi giornalistici insieme, era la prima volta che Simona e io lavoravamo a un video. Volevamo testare il nostro sguardo anche in quest’ambito: io avevo appena vinto il Premio Enzo Baldoni e, grazie al suo finanziamento, produssi il corto. E’ un lavoro immaturo rispetto a “Solo per farti sapere che sono viva” ma in fondo è il suo embrione: una narrazione del femminile asciutta, senza fronzoli, che si rifiuta esplicitamente di parlare alla pancia dello spettatore, per tentare di rivolgersi alla sua testa. Più difficile, di certo meno pop, ma secondo noi più necessario.