di Elena Paparelli
“Al chiosco, prima della crisi, capitava di vedere uomini innamorati che compravano un mazzo di fiori spendendo anche cento euro. Adesso, si fermano qui contando le monete sul palmo della mano e ti chiedono appena una rosa”. Ride, Ayman, 32 anni, egiziano, dal 2004 in Italia e da qualche mese venditore in un chiosco di fiori del centro di Roma. Prima di posare le valigie nella Capitale ha cercato lavoro anche a Milano, Brescia, Genova. Tutti lavoretti precari – anche di una sola settimana – trovati per lo più per conoscenza. Le sue settimane sono intermanete impiegate fra viole e orchidee, per dodici o anche tredici ore al giorno, lavorando pure di sabato.
“È un lavoro bellissimo – si affretta a precisare, con gentilezza – ma non mi dà da campare”. Turni massacranti per intascare 1000 euro al mese. Il problema è che da due mesi il suo “padrone” non gli dà più lo stipendio. E Ayman continua lo stesso a presidiare il chiosco, in attesa che la situazioni si sblocchi. Perché forse non è soltanto un fatto di crisi: “So che il padrone vuole investire anche in un altro chiosco. Ma possibile che non pensi prima ai lavoratori?”. Vorrebbe cambiare attività. Eppure, trovare un altro lavoro in Italia, ne è convinto, per uno straniero in questo momento è impossibile. I numeri sembrano dargli ragione: nel primo semestre del 2013 i senza lavoro stranieri sono saliti a 511mila, rispetto ai 380mila del 2012. Ayman oggi fa parte di quella alta percentuale di stranieri – ben il 29 per cento – che, secondo la classificazione Eurostat (2013), svolge un’occupazione elementare: la quota più alta riguarda la categoria degli operai specializzati in agricoltura, lavori artigianali, pesca, conduttore di macchinari e impianti; il 13 per cento è occupato in mansioni impiegatizie o di addetto alle vendite; appena il 5 per cento è impegnato in una professione manageriale o tecnica.
La dequalificazione – è quanto riporta il Ventesimo Rapporto nazionale sulle migrazioni della Fondazione Ismu, che è stato presentato pochi giorni fa – non è l’unica forma di discriminazione che colpisce gli immigrati. Ad aggravare il quadro, c’è anche un calo delle retribuzioni medie dei migranti che li vedono ingrossare sempre di più le schiere dei cosidetti “working poors”. E allora si scoprono forme di welfare familiare che riguardano anche gli stranieri: «La mia famiglia in questo momento mi aiuta con 200 o 300 euro al mese», racconta Ayman. Come tanti stranieri a Roma, anche Ayman vuole tornarsene a casa. L’unico lavoro buono che aveva trovato in Italia era a Milano, nel settore meccanico: 1.700 euro al mese. Ma non aveva ancora il permesso di soggiorno.
Per ottenere lo status di cittadino l’Italia è uno dei Paesi che registra i tempi più lunghi. Quando finalmente Ayman è riuscito ad ottenerlo, il lavoro non c’era più. Anche nelle “floride” province del Nord – stando ai dati Ismu – più di un disoccupato su 4 è straniero. “Venire qui in Italia – conclude Ayman, non rinunciando al sorriso – è stato il mio più grande errore”. Lo scontento è diffuso, soprattutto tra i venditori ambulanti, quelli che vendono fazzoletti, spugne, calze, fiori. A Roma sono oltre duemila, dicono all’assessorato alla Roma Produttiva. Uno di loro è Cossain, 34 anni, simpatico, che arriva dal Bangladesh: 16 anni a lavorare in strada e all’attivo tanti lavori, da meccanico a barista fino ad ambulante. Da qualche mese fa il caldarrostaio (un cartoccio di 7 castagne, 3 euro). Ma è anche lui alle dipendenze di un padrone: “La licenza costa troppo”, dice. In attesa di aprire un’attività tutta sua, continua la sua attività di ambulante. Ma non se la passa bene. Prima della crisi – dice – arrivava a chiudere il mese con 1200 euro. E, nei periodi più fortunati, anche con 1500 euro. “Oggi – ammette in un fluente italiano – i guadagni si sono dimezzati”. L’unico “vantaggio” è che per lui non ci sono turni massacranti: l’orario di lavoro varia a seconda delle vendite. “Diciamo che dovrei arrivare almeno a 40 euro per chiudere la giornata”, svela.
Mentre arrostisce caldarroste armeggiando con le molle sulla griglia, si dice contento di parlare con un’italiana: “La gente così si avvicina con più facilità”. Cossain sa bene che aria tira. L’ultimo rapporto Ismu conferma un cambio di atteggiamento generalizzato degli italiani nei confronti degli immigrati, in questa prima parte del secondo decenndio del Duemila: “Tra i cittadini europei – si legge nel rapporto – gli italiani tornano ad essere fra i più scettici nei confronti dell’immigrazione, ma con una specifica caratterizzazione: l’ambivalenza. Accanto a un atteggiamento di apertura nei confronti degli immigrati già presenti, vicini di casa o colleghi di lavoro, considerati ormai una parte strutturale del nostro paese, compare il timore di una nuova ondata migratoria, che potrebbe ripresentare i problemi legati al welfare e alla sicurezza emersi già vent’anni prima”. Oltre a un problema di diffidenza nei confronti dell’immigrato, Cossain si trova a fare i conti con le difficoltà di ogni ambulante a Roma: un abusivo ogni otto regolari (secondo i conti dell’Anva-Confesercenti); il blocco delle licenze nel 2006; una situazione di degrado diffuso presente nella città, a cominciare dai marciapiedi. “Oggi a Roma la situazione è nettamente peggiorata – lamenta Cossain, non trattenendo la sua rabbia – tutto è in abbandono, a cominciare dalle strade, e non ci sono mai controlli».
E da Roma passa a lamentarsi dell’Italia, che conosce bene: “Gli italiani sono subissati da troppe tasse e qui non c’è più niente: né terra, né commercio, né fabbriche». Fino all’affondo conclusivo: “Io sono giovane, posso tornare in Bangladesh e ricominciare. Ma l’italiano dove va?”. Ti congeda, quasi per consolarti, regalandoti una castagna. Non è facile trovare ambulanti disposti a fare due chiacchiere parlandoti del loro lavoro. Quando ne trovi uno, nella maggior parte dei casi interviene il datore di lavoro. Come l’anziano Marco, 28 anni da venditore ambulante nella Capitale: “Hanno ragione quelli della Lega – esordisce, non staccando mai lo sguardo dagli hot dog in preparazione – il lavoro non c’è neppure per noi che siamo italiani”. La sua attività, dice, tiene soltanto nei mesi estivi: “La crisi ha colpito duro dal 2003-2004. Noi eravamo in tre a lavorare, uno l’ho già mandato via. Adesso, anche per questo qui, ho pronta la lettera di licenziamento”. Il lavoratore in questione viene dal Bangladesh, da sette anni è a Roma. Sette anni, e tante cose da raccontare. “Il ragazzo non ha niente da dire, taglia corto Marco. Arrivederci.
A parlare è un altro “giovane” del Bangladesh, che lavora ad una pompa di benzina. Ripon, 30 anni, da quattro anni in Italia. Dice di intascare 400 o 500 euro al mese, facendo un orario dalle 7.00 alle 19.30, ma con la pausa pranzo. E un solo giorno di riposo alla settimana. La notte lascia fare al servizio self service. “Ho provato a cercare lavoro anche a Milano ma lì – dice – è lo stesso che a Roma”. Parla con preoccupazione delle sue condizioni di salute. Lavorando sempre in strada, accusa frequenti mal di testa e forti mal di gola. Se nel 2020 è stimato che gli immigrati residenti in Italia saranno più di sette milioni, Ripon spera proprio di non essere fra questi: “Vorrei andare in Olanda, oppure in Australia”, dice. Come molti italiani che oggi fanno le valigie.