La prima volta che ho visto Shadi è stata poco più di un anno fa. All’aeroporto di Hatai, penisola di Antakya. Turchia.
Da lì si arriva a Reyhanli, la piccola città di confine che ha accolto 90 mila rifugiati siriani. Da lì si entra in Siria.
Da lì, soprattutto, dalla Siria si tenta di uscire. Shadi allora era con il Free Syrian Army.
Oggi è in Olanda. Con la moglie e i suoi tre figli.
Ma la sua storia parte da lontano.
Siamo ad Hama, nord della Siria, è il febbraio del 1982. Trent’anni prima delle primavere arabe. Tutta la città scende in piazza e insorge contro gli arresti politici dell’allora presidente Hafiz al-Asad, alawita, padre di Bashar al-Asad, Hama resta sotto assedio per giorni e giorni. L’esercito e le forze di sicurezza di Assad massacrano e torturano migliaia di oppositori al regime.
Ancora impossibile stabilire la conta delle vittime. Il New York Times parla di almeno diecimila cittadini uccisi, il comitato siriano per i diritti umani di quaranta mila. Uno degli uomini catturati e torturati era il padre di Shadi.
Che dal carcere politico è uscito morto.
Trent’anni dopo, il 3 luglio del 2011, per la prima volta dopo il massacro, i cittadini di Hama scendono in piazza contro Bashar al Asad. Shadi è tra loro.
“Se dovessi descriverti il giorno in cui mi sento di essere nato è quel giorno. Il 3 luglio 2011, quando ho visto le facce dei soldati di Assad che non credevano ai loro occhi di fronte al fiume di gente per strada”
La sua storia, quest’uomo dagli occhi che hanno visto troppo, inizia a raccontarla dopo giorni, nel campo profughi di Atma, dove distribuiva cibo e abiti.
“Ho studiato economia a Londra, mi sono laureato con il massimo dei voti e ho trovato lavoro a Dubai. Quando da lì osservavo la gente in piazza, quelle che voi chiamate Primavere arabe, vedevo le immagini della Tunisia, dell’Egitto, di Ben Alì e Mubarak. Ho deciso che dovevo tornare a casa. Il regime di Assad mi ha tolto padre e un fratello, ucciso a sangue freddo sulla porta di casa sua davanti ai figli e alla moglie. Era arrivato il mio turno di fare qualcosa”
Shadi viene da una famiglia dell’alta borghesia di Hama, città ricca, molto e a grande maggioranza sunnita.
“Avevo sei anni nel 1982 quando ho perso mio padre. Cresci solo con la memoria della perdita e il desiderio di vendicarti. Crescevo. E più pensavo a mio padre e cercavo nella testa il suo volto, più Assad ricopriva le nostre città con la sua immagine. Sapevo che avrei scontato il mio ritorno.”
Shadi ha vissuto per un anno a Reyhanli con la sua famiglia. Reyhanli è un non luogo. Non è più Turchia e non è ancora Siria. Della Siria ospita i profughi, della Turchia gli aiuti ma anche la speculazione. Qui prima della guerra civile siriana un affitto non costava più di cento euro al mese. Dopo, l’economia della guerra li ha fatti lievitare fino a 500.
Con una mano si aiuta, con l’altra si guadagna. E’ di fronte all’ennesimo caffè che Shadi mi racconta del suo arresto.
“Avevano scoperto che ero tra gli organizzatori della rivolta e una mattina sono venuti a prendermi a casa. La prima settimana non mi hanno fatto mangiare. Mi hanno torturato con scosse elettriche ogni giorno. Volevano che facessi i nomi degli altri, degli altri ribelli”
Cosa pensavi?
“Pensavo a mia moglie che era incinta del nostro secondo figlio. Pensavo ai compagni di cella che vedevo morire. Pensavo che sarei morto come loro. Pensavo ad Allah. Sapevo che comunque sarebbe andata lui era accanto a me. La seconda settimana mi hanno spostato in una cella singola. Era buio, tranne che per una minuscola luce rossa. Mi appendevano per ore al soffitto, mi legavano i polsi e mi lasciavano appeso e nudo. Quando li sentivo entrare sapevo che mi avrebbero attaccato i cavi. Sentivo i passi avvicinarsi e iniziavo a tremare e non potevo fare nulla se non chiudere gli occhi e pregare Allah che durasse poco.
È durato ore, giorni. Non so dirti. Il tempo non esisteva lì.”
Lì è il carcere di Palmyra, è in mezzo al deserto e Assad ci porta gli oppositori politici. Escono in pochi vivi.
Shadi è riuscito a uscire dopo tre mesi perché la sua famiglia, vendendo tutto ciò che aveva, ha corrotto un altro comandante delle forza armate di Assad. Poteva andare in Europa già da allora ma ha deciso di restare e continuare a combattere per la libertà del suo paese.
“Ho passato sei mesi in un ospedale riabilitativo per riprendere l’uso delle braccia e della gambe. Mia madre voleva che scappassi. Mia moglie voleva scappare ma il mio dovere mi ha tenuto in Siria. Ho scelto di restare con il Free Syrian Army per lavorare al confine turco siriano. Era l’unico polmone per aiutare la mia gente. Per dare aria, cibo, un posto dove dormire, medicine. Anche solo un riparo. Ho visto arrivare migliaia di persone. Ogni famiglia aveva almeno una vittima morta sotto i bombardamenti del regime. Ho visto bambini camminare per chilometri soli, avendo perso genitori e fratelli. Ho visto mutilazioni che non si possono raccontare”.
Io ho visto Shadi lavorare nei campi profughi.
Un anno e mezzo fa, quando ancora il progetto dello Stato Islamico per come lo conosciamo oggi non esisteva, e ancora otto mesi fa. E ho visto il suo volto cambiare e la sua speranza lasciare il posto a una paura nuova. Oggi Shadi è riuscito ad attraversare il mare e arrivare in Olanda. Perché mentre lui e gli altri ribelli cercavano di liberare il paese dal regime di Assad, chiedendo all’occidente aiuti che non sono mai arrivati, l’esercito del Daesh (nome arabo dell’Isis) avanzava senza sosta, conquistando zone che i ribelli avevano liberato.
“Abbiamo tentato di mediare all’inizio, di capire se avevamo un progetto comune. Noi volevamo liberare il nostro paese da una dittatura. Ci hanno lasciati soli per tre anni. Hanno lasciato morire la nostra gente. A tutto questo abbiamo cercato di opporci con le nostre mani e le nostre forze. Ma quando i nemici da combattere sono diventati due, da una parte Assad e dall’altra le bestie di Daesh, molti di noi non ce l’hanno fatta più. Molti di noi sono stati uccisi. Io ho deciso di salvare la mia famiglia.”
Shadi ora mi scrive da Amsterdam. Aspetta il terzo figlio. Poche settimane fa mi ha raccontato che la sua famiglia è di origine palestinese.
“L’esodo è nel mio destino” mi ha detto.
photo credit: Francesca Mannocchi