Beirut, giugno 2014
A Beirut era il terzo attentato in meno di una settimana, dopo quello di venerdì 20 giugno al posto di blocco di Dayr al-Baydar, e quello di lunedì 23 giugno a Tayyouneh, una delle maggiori entrate di accesso ai quartieri meridionali della città, dove un’autobomba è esplosa a pochi passi da un locale pieno di persone che stavano guardando la partita del Brasile di Coppa del Mondo e che è costato la vita oltre all’attentatore anche a un ufficiale di sicurezza. La sera di mercoledì 25 giugno alle 19 e trenta, all’Hotel Duroy, a Raouche, in pieno centro città, un giovane uomo si faceva esplodere nella sua stanza al terzo piano per evitare i controlli che la polizia libanese stava facendo all’edifico in seguito ai due attentati dei giorni precedenti. La città tornava a essere scossa dal radicalizzarsi degli attentati che, come quelli che dall’estate del 2013 avevano colpito soprattutto Dahiye il distretto sud occidentale a maggioranza sciita, roccaforte di Hezbollah, le cui milizie sono attive in Siria a sostegno di Bashar al Assad, sono direttamente collegati al conflitto siriano e al radicalizzarsi della situazione irachena dove domenica 29 giugno l’Isis (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) autoproclamava la formazione dello Stato Islamico.
C’era in quei giorni un’atmosfera pesante a Beirut. La vita continuava sull’orlo di un equilibrio fragile, perché di semplice nello sviluppo degli scenari presenti non c’è niente. Un passato che non è mai passato e lo spettro ancora peggiore del presente. Le notizie rimbalzavano, nei locali, nelle edicole, per strada si parlava sempre della situazione della Regione. Eppure non riuscivo a smettere di pensare ad Aziz, volevo chiedergli come erano andate le cose con i medici di Caritas che si stavano prendendo cura del suo bambino, se ogni cosa era andata come avrebbe dovuto.
Aziz vive 40 kilometri a nord di Beirut, per l’esattezza una decina di kilometri a nord della baia di Jounieh, dove i campi coltivati a serre arrivano al mare. Vive in una baracca, in uno dei tanti insediamenti sparsi che in un gergo abusato – inascoltabile – sono chiamati informal settlements. In quelle settimane mentre giravamo a piedi la zona, ne abbiamo visti a decine. Nascoste nei terreni, sotto un sole soffocante, se si lascia la strada asfaltata e ci si inoltra nei canneti – oltre le carcasse di automobili e i rifiuti lasciati a marcire negli spiazzi di sterpi bruciate – se si attraversa la terra spaccata dalla siccità, si riescono a vedere: baracche di fango e lamiera nascoste ai bordi dei fossi, tra cumuli di ferraglia e copertoni. Se ne vede una, oltre il canale di scolo, poi un’altra addossata alla prima, sedie di plastica rotta attorno a tavolini di barattoli di latta. Qui le cose non sono cambiate, possono solo peggiorare. La vita dei rifugiati siriani che da più di due anni le abitano continua a essere questa. Anche se non importa più a nessuno e non fa più notizia. Perché ci si abitua a tutto – si dimentica – e l’attenzione passa ad altro. Quella di Aziz è solo la storia di una vita tra milioni di altre. La storia di un isolamento disumano che tiene milioni di persone lontane anche solo da un’idea remota di esistenza. I civili, i soli che continuino a pagare ogni prezzo, la vita di un uomo, la vita di una giovane donna, la vita di un bambino, all’infinito. Ogni singola vita. L’unica cosa alla quale si dovrebbe dar peso. Non è una notizia. Ed è fragile. La vita che perdiamo è fragile. Ed è a un passo da noi.
Quel pomeriggio abbiamo deciso si tagliare in diagonale un campo di sterpi e di seguire il viottolo di terra fino all’entrata di una baracca. Dall’interno arrivavano voci poi una donna anziana è apparsa sulla soglia. Le abbiamo chiesto di poter scambiare qualche parola. La sua risposta è stata calma senza un’ombra di paura, ha detto solo – qui siete i benvenuti – e ci ha invitato a varcare la soglia. Dovevano avere da poco lavato a terra ma il caldo all’interno era opprimente, non c’era aria, i bambini dormivano su piccole stuoie, seminudi grondando sudore, una giovane donna era china sui loro corpi per fargli vento con un pezzo di cartone. In quella stanza vivono otto persone. Due fratelli con le mogli e i bambini – il più piccolo dei quali ha pochi mesi – e la madre anziana dei due uomini. Sistemandosi in capo con cura l’hijab, la donna chiedeva al figlio maggiore di portare due sedie per noi, per non farci stare a terra.
Tutta la famiglia ci si è fatta attorno.
“Siamo di Aleppo – ha annuito – non ce ne andiamo da qui perché vogliamo rimanere vicini al nostro paese. L’unica cosa che vogliamo davvero è potere tornare alle nostre case, anche se non esistono più, vogliamo solo tornare. Anche se ad Aleppo continuano a bombardare ogni giorno dal cielo e questa guerra sporca sembra non finire mai noi vogliamo restare vicini al Paese”. I figli, di 25 e 27 anni, da quando sono arrivati in Libano due anni fa, lavorano nelle piantagioni a ridosso della baracca, per circa 4mila lire libanesi al giorno, poco più di 2 euro. “Noi siamo i fortunati”.
Continuava a benedirci, la donna, per averle fatto visita, per essere riusciti ad arrivare salvi fino alla soglia della sua casa. A qualche metro dall’uscio abbiamo incontrato un giovane che ci sorrideva. Gli abbiamo chiesto da dove venisse. “Hama” ha risposto. Ci ha detto di conoscere tanti amici che erano partiti per cercare la pace in Europa. La pace, ripeteva. Ci ha chiesto se in Europa si può lavorare, se si può vivere meglio, una possibilità. Ci ha parlato della Svezia, riportando con cura i racconti di chi è riuscito ad arrivare. Ho abbassato gli occhi per la vergogna, la nausea insopportabile per ciò che rappresentavo ai suoi occhi, e per come abbiamo lasciato che il mare che per millenni ha unito le nostre culture sia potuto diventare una tomba muta di orrori. La nausea e la vergogna di me.
Abbiamo intravisto Aziz di sfuggita sul viottolo di terra che costeggia una serra di pomodori. Se ne stava andando, siamo stati noi ad avvicinarci. Gli abbiamo chiesto se c’erano altre famiglie attorno ai campi. “Ce ne sono a centinaia”, ha risposto. I suoi occhi chiarissimi hanno indugiato solo un istante prima di rispondere. “Siamo tutti siriani”.
Aziz è di Aleppo, ha meno di trent’anni, anche lui lavora nelle serre. A poche decine di metri dalla sua baracca, ha rallentato il passo, camminando piano quasi senza fare rumore. Dall’interno non arrivavano suoni. Ha chiamato la moglie, ma sull’uscio di terra dell’unica stanza è apparsa Aisha, una testolina di trecce pettinate e il vestito rosa. Quando si è accorta di noi è corsa a nascondersi dietro le gambe del padre, ma poi ci ha sorriso di nascosto. Ha tre anni. È stata lei la prima a entrare nella stanza, a farci segno di seguirla. Ha fatto qualche passo e, nella semioscurità, un materasso sottile addossato a una parete spoglia e una stuoia ai piedi del muro di terra, non c’era altro. Il caldo asfissiante per la mancanza di finestre e gli occhi che si sono abituati all’assenza di luce. Il profilo di una giovane donna affiorava dal buio, il viso bellissimo di una maternità antica di dignità silente. Ci guardava immobile, senza parlare. Poi a passi lievi si è alzata e si è avvicinata a noi. Al suo arrivare siamo indietreggiati quasi per riverenza, per avere violato quello spazio privato. Sono inciampata per portarmi all’esterno dove la bambina faceva ondeggiare l’altalena sbilenca di plastica rossa montata con fili di corda sul tetto di lamiera. La giovane madre mi ha sorriso, aveva un neonato in grembo. Aziz l’ha chiamato per nome. Il bambino respirava a fatica, in affanno, sibilando un suono stremato. Era avvolto in una tutina bianca, madido di sudore, gli occhi deformati da un dolore impossibile da portare. Profumava di bucato. Abbiamo chiesto al padre che cosa avesse, cosa succedeva. “Una malformazione cardiaca, e si è portato la mano al cuore. “Sette mesi”, ha aggiunto e guardandolo abbiamo saputo che quel piccolo corpo che viveva il calvario ancora non era più grande di quello di un neonato di due.
“Siete i benvenuti”, ha sussurrato la madre.
Qui ci sono tutti. I loro morti e i loro silenzi. Tutti i giorni passati dal primo bombardamento. C’è ogni immagine che torna a tormentare le notti. C’è tutto. Un materasso e una stuoia. Una parete di muro sfondata. Un tetto di lamiera. Ogni gesto. Il dolore che non finisce quando si smette di parlarne. Il coraggio di volere un domani. Il coraggio di ricominciare.
Milano, luglio 2014
“Qamar è un bel nome”, le dico – “la luna” -, continuo, puntando il dito al soffitto alto della Stazione Centrale. Qamar sorride. “Sì, porto il nome della luna”. Parla lentamente, mi guarda a lungo. I suoi occhi così enormi. “Di solito parlo di più ma oggi abbiamo fatto il Viaggio, siamo arrivati da poche ore”. Poi si tocca il viso bruciato dal sole dei giorni trascorsi in balìa del mare. “Oggi faccio così fatica”. Si passa la mano sugli occhi, Qamar che porta il nome della luna.
Mentre Gaza brucia.
“Siamo palestinesi. Palestinesi siriani di Yarmouk. Siamo in viaggio da dieci mesi. Le persone per sopravvivere hanno mangiato le foglie, a Yarmouk, gli animali. Non c’era più niente. Abbiamo visto morire troppe persone. Li abbiamo visti morire, uno dopo l’altro. Occhi come i nostri”.
Oggi nel mezzanino della Stazione Centrale di Milano ci sono molte persone. Uomini, donne e soprattutto bambini. Dopo esodi di mesi sono riusciti a raggiungere la Libia e lì, pagando spesso con i risparmi di una vita i trafficanti di esseri umani, sono riusciti a imbarcarsi. A prendere il mare. Fare il Viaggio. L’inferno è il luogo dal quale stanno cercando di mettersi in salvo. Sono siriani soprattutto, qui, al mezzanino. I bambini stanno vicino alle madri. Le persone arrivano in treno nella grande stazione, camminano veloci, scendono le scale del mezzanino a un passo da queste vite. Non si fermano quasi mai. Non vogliono sapere cosa succede da mesi in questa stazione, chi siano tutte quelle persone e perché si trovino in questo luogo. Non vogliono sapere il perché. Non vogliono che il dolore arrivi fino alle loro porte. Camminano con il terrore di girarsi e vedere. Di fermarsi per conoscere. Hanno paura dei volti di chi è sopravvissuto. Il terrore del volto dell’uomo. Non sanno, forse, che se solo scegliessero di smettere di correre e si voltassero, vedrebbero in quei visi i loro. Quelli dei loro figli bambini. Quelli delle loro madri. Se solo si fermassero, tornerebbero a sentire pulsare violentemente ciò che ci rende figli di una stessa terra. Non sanno che sarebbero loro gli accolti.
Qamar ha venticinque anni, ha viaggiato con il marito e con la famiglia della sorella Yasmina. In fuga da Damasco sono arrivati in Egitto e dall’Egitto alla Libia. Qui hanno atteso settimane prima di potersi imbarcare. “Nostra madre non se l’è sentita di fare il viaggio. È molto anziana, prima di partire l’abbiamo portata da altri parenti che vivono a Yaramana. Non credo che in questa vita potremo più riabbracciarla. Non ci fermeremo in Italia, dobbiamo raggiungere la Germania, dove ci sono altri parenti. Inshallah potremo partire di nuovo domani e l’unica cosa che spero è di riuscire a trovare un luogo sicuro”.
Ha un piccolo cellulare e ci scambiamo i numeri. Le dico di farmi sapere quando arriveranno. So che sta aspettando la chiamata dell’ennesimo trafficante. La aspetta come l’unica salvezza. Mi stringe la mano e prega, che non li abbandonino a metà strada, che non li buttino giù. Che non li facciano sparire.
Casa Suraya porta il nome della prima bambina siriana che ci è nata. È una struttura gestita dalla Caritas Ambrosiana in collaborazione con la cooperativa Frasi Prossimo. Dalla fine di giugno, insieme ad altre quattro strutture sul territorio milanese, il grande edificio immerso in un bel parco fornisce il primo soccorso e un alloggio temporaneo ai rifugiati siriani in transito. Sul lungo viale alberato c’è un silenzio irreale. Dalle finestre che danno sul parco vedo i bambini giocare, ridono e si rincorrono, sotto un cielo così calmo da sembrare in pericolo. Così azzurro. Penso ai cieli che hanno dovuto vedere nei loro pochi anni di vita, al terrore che hanno imparato a conoscere dall’arrivare del suono, il sibilo, la detonazione e l’impatto. Penso alla fame e alla paura. Li vedo a qualche metro da me, oggi giocano a ruba bandiera e a palla. Ridono, anche se hanno la pelle spaccata dal sale e dal vento. Il Viaggio per la maggior parte di loro non è ancora finito e sono arrivati salvi fino a qui. Devono essere protetti.
L’Osservatorio siriano per i diritti umani, ha stimato che nei soli giorni tra il 28 agosto e il primo settembre 2014, sono stati 47 i bambini siriani rimasti uccisi dai bombardamenti in diverse parti del Paese. Le vittime dall’inizio del conflitto, tre anni e mezzo fa, superano le 190mila. Su una popolazione totale di 22 milioni di abitanti sono dieci milioni gli sfollati, tra i dispersi all’interno del territorio e i rifugiati che sono stati costretti a lasciare il Paese. Questo significa che, dall’inizio del conflitto e per il costante brutale e orrorifico sviluppo della situazione interna del Paese, un siriano su due è stato costretto a lasciare la propria casa.
“Siamo di Moadamiya” mi dicono Um Taib e Um Ahmed. (Moadamiya è un sobborgo di Damasco che – dopo essere stato completamente assediato dall’esercito lealista infliggendo alla popolazione sofferenze disumane e riducendola alla fame fin dall’inverno del 2012 – è stato vittima il 21 agosto 2013 dell’atroce attacco con armi chimiche da parte dello stesso Governo siriano) “Siamo riusciti a fuggire un anno e mezzo fa. Dalla Siria siamo arrivati in Egitto. Siamo rimasti al Cairo per nove mesi. Dal Cairo siamo riusciti ad arrivare in Libia, dove abbiamo aspettato altri mesi per avere i soldi e imbarcarci. Abbiamo pagato 800 dollari a persona, solo per la traversata dalla Libia alle coste siciliane. Siamo rimasti in balìa di una tempesta due giorni poi un’imbarcazione della Marina italiana ci ha soccorsi. Se non fossero arrivati saremmo morti tutti. Ogni giorno prego per quegli uomini. Il nostro Viaggio non è finito. Dobbiamo raggiungere la Svezia. Non ci è rimasto niente ma lì forse potremo ricominciare a vivere”. Ahmed ha quattro anni e siede in braccio alla madre. Guarda attento e ascolta, non gli va di giocare fuori con gli altri bambini. Attorno a noi arrivano i mariti delle due donne e altri ragazzi. Il padre di Ahmed mi guarda a lungo, mi dice che c’è un’unica cosa alla quale tiene, e che vuole che sia chiara. “Moadamiya è il simbolo delle sofferenze disumane di tutto il popolo siriano. Il regime non lascerà mai il potere, a costo di uccidere la popolazione intera – uno a uno – e Daesh (come viene chiamato in arabo lo Stato Islamico) è come il regime. L’unica cosa che vogliono è il potere assoluto. Noi li abbiamo rifiutati entrambi, non può essere questa la Siria di domani, non è per questo orrore che i cittadini sono scesi in piazza tre anni fa. Non era per arrivare a questo che la rivoluzione è iniziata. Noi chiedevamo democrazia e giustizia. Gli uomini di Daesh sono tiranni ai quali ogni siriano di buon senso si oppone categoricamente. La popolazione è rimasta schiacciata – abbandonata a una devastazione che non può essere descritta – stritolata da questo doppio giogo di terrore ed è la sola che continui a pagare, giorno dopo giorno, il prezzo disumano di migliaia di vite. Ogni giorno. Ieri come oggi”.
photo credit: Maria Camilla Brunetti