di Maria Camilla Brunetti
“Di Mario ho apprezzato subito la grande umanità, la capacità di fare il risotto comme il faut e quell’umiltà e disponibilità che hanno solo i grandi personaggi.” Emanuele Giordana
È una lunga conversazione con Mario Dondero sulla storia del fotogiornalismo e sulla sua etica, quella che Emanuele Giordana raccoglie ne Lo scatto umano.Viaggio nel fotogiornalismo da Budapest a New York (Editori Laterza, 2014). La voce del grande fotoreporter italiano guida il lettore in un lungo attraversamento nella sua storia personale di testimone privilegiato del contemporaneo e nella storia della fotografia documentaria.
Una storia che ha inizio nell’Ungheria dei primi del Novecento, a Budapest, la capitale raffinatissima e cosmopolita di quella Mitteleuropa che vedrà il suo lento declino con la fine della Prima Guerra mondiale e poi la sua dissoluzione con la Seconda Guerra mondiale e gli orrori delle persecuzioni naziste e dell’Olocausto.
Così Dondero inizia questo lungo viaggio: “Se dovessi raccontare la storia del fotogiornalismo pensando alle città dove è nato, mi verrebbe in mente Budapest, che fu il punto di partenza di grandi fotoreporter come Robert Capa – che in realtà si chiamava Endre Ern Friedmann – o “André” Kertész, ma anche di creatori del giornalismo fotografico, artefici delle prime agenzie di distribuzione di immagini, mediatori per eccellenza tra il mondo dei fotografi e il pianeta dell’editoria”.
Ungheresi non erano solo Capa – il maestro indiscusso di Mario Dondero, il più amato e uno dei pochissimi grandi del fotogiornalismo che Mario non abbia conosciuto di persona – o André Kertész, appunto. Ungheresi erano anche Brassaï, László Moholy–Nagy, Martin Munkácsi, Simon Guttmann che nel 1928 creò la grande “Dephot”, la mitica agenzia berlinese madre di tutte le agenzie fotografiche o Stefan Lorant, fondatore del «Picture Post», il maggior magazine britannico di fotogiornalismo fondato nel 1938 che già nei primissimi mesi di vita arrivò a vendere oltre il mezzo milione di copie settimanali.
L’avvento del nazismo costrinse la quasi totalità di questi intellettuali, che diventeranno i fondatori di un nuovo modo di intendere la fotografia documentaria, a fuggire dall’Ungheria e dalla Germania, verso la Francia, l’Inghilterra e poi alla volta degli Stati Uniti. Molti di loro erano ebrei, altri erano di sinistra, alcuni erano ebrei di sinistra e tutti erano strenui oppositori dei regimi che opprimevano Germania e Italia.
Costretti ad abbandonare tutto ciò che avevano conosciuto, lasciando i loro Paesi in rovina preda di dittature sanguinarie, trovarono pace e salvezza nelle capitali dell’Europa occidentale e i talenti di quegli uomini e di quelle donne in fuga fondarono la storia del fotogiornalismo internazionale per come la conosciamo oggi.
Quando Emanuele Giordana chiede a Dondero cosa sia il fotogiornalismo, Mario cita un grande reporter, Ryszard Kapusciski. “Il fotogiornalismo è raccontare la vita con sincerità e lealtà e con amore per la gente”, dice, e poi prosegue un discorso molto preciso, sulle criticità, il peso e la sofferenza del mestiere. “I concerned photographers, i fotografi di impegno civile, spesso hanno una vita difficile: vogliono raccontare l’irraccontabile, quello che non si può o non si deve raccontare. Devono affrontare censure e resistenze, sia quelle delle istituzioni politiche sia quelle che esistono in seno alle stesse redazioni dei giornali. Questo è il fotogiornalismo cui mi sento più vicino e di cui mi piace parlare”.
Parla dell’umanità del fotografo documentario, Dondero, di come ritenga che al centro della professione debbano sempre esserci le persone e le loro storie e un desiderio vero di incontrarle e di raccontarle con la massima onestà e con rigore. Le storie delle persone, la complessità. Questo è il cuore di tutto. “A me le foto interessano come collante delle relazioni umane e come testimonianza delle situazioni. Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono”, afferma Mario all’interno di Mario Dondero, il volume monografico a cura di Simona Guerra edito da Mondadori nel 2011.
Dopo avere a lungo frequentato i fotografi e gli intellettuali, come Luciano Bianciardi, che si riunivano a Milano al Bar Jamaica, all’inizio del 1954 – a ventisei anni – Dondero lascia definitivamente l’Italia per Parigi, città nella quale vivrà stabilmente, tra un viaggio e l’altro, per i trent’anni successivi. Qui frequenta l’ambiente del Quartiere Latino, dove si riunisce l’intellighenzia europea della diaspora e quella francese. Celebre la sua fotografia del 16 ottobre 1959 per L’Illustrazione Italiana che vede ritratti i protagonisti del Nouveau Roman davanti alla sede delle Éditions de Minuit, pubblicata nel numero 15 de Il Reportage in occasione dell’intervista che Maria Teresa Carbone ha fatto al fotografo.
Collabora costantemente e in modo proficuo con le più importanti testate italiane ed estere Tempo illustrato, L’Europeo, L’Espresso, Epoca, l’Unità, poi Regards, Le Monde, France Observateur e ancora Le Nouvel Observateur, Guardian, Times. Documenta i cambianti delle società europee occidentali, ma viaggia moltissimo anche nell’Europa socialista, dove documenta tra le altre cose la caduta del Muro da est, in Asia e concentrerà molta della sua attività a documentare il continente africano.
Un’energia inesauribile, quella che muove ancora oggi Mario Dondero, una curiosità sempre guidata da un’assoluta spinta etica e da un grande fervore politico, civile, di profondo engagement. A più riprese, all’interno del volume, Mario tornerà a sottolineare quanto sia importante per il fotogiornalista il costante impegno conoscitivo, di ricerca, la necessità di tenersi informato, di conoscere il più possibile la storia e le complessità degli ambienti che deve documentare, e quanto siano determinanti gli influssi e le suggestioni che gli giungono da altre discipline, dalla letteratura, dalla storia.
Non a caso all’interno de Lo scatto umano, Mario dedica un capitolo di grande tensione analitica alla Guerra civile spagnola, che sarà il primo grande tragico teatro del fotogiornalismo moderno. “La Spagna diventò una scena primaria e molti dei fotografi di cui abbiamo parlato partirono per quella terra, non solo mossi dal loro mestiere ma dalla passione civile”. È in questo contesto che, come afferma Furio Colombo in prefazione al catalogo della mostra Spagna 1936-1939 che la Biennale di Venezia ha dedicato nel 1976 a quegli eventi, nasce la comunicazione visiva degli eventi.
Proprio la Spagna in quegli anni tragici è un luogo in cui si incrociano talenti diversi. Hans Namuth, Robert Capa, David Seymour si trovano a fianco di scrittori come Koestler, Orwell, Auden, Dos Passos, Hemingway e dove troverà la morte a soli ventisette anni, Gerda Taro, fotoreporter di straordinario talento e coraggio e amatissima compagna di Robert Capa.
È l’umanità, il centro pulsante di ogni discorso che Dondero affronta sulla sua professione e sulla sua attitudine documentaria. L’umanità, che è sia la capacità/dono di taluni grandi professionisti di entrare in profonda empatia con ciò di cui si è testimoni, sia il talento e l’umiltà necessari per restituire ciò che si è incontrato. Perché, sembra dirci Mario, al centro di ogni lavoro di documentazione deve esserci l’uomo e solo l’uomo. L’uomo e la sua storia
Così Massimo Raffaeli apre la sua prefazione al sopracitato volume monografico curato Simona Guerra: “Chi abbia avuto la fortuna di incontrare Mario Dondero sa esattamente quale sia il significato della parola humanitas”.
photo credit: Mario Dondero (Paestum)