di Maria Camilla Brunetti
MEMO è un nuovo progetto editoriale nato dall’idea di cinque fotogiornalisti, specializzati in conflitti e in temi di urgenza sociale. Sono Fabio Bucciarelli (Robert Capa Gold Medal, World Press Photo, Prix Bayeux-Calvados), Manu Brabo (Pulitzer Prize, Prix Bayeux-Calavados, POYi), Guillem Valle (World Press Photo, Best of Photojournalism), Diego Ibarra Sánchez (NYT contributor) José Colón (AFP contributor).
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Ne parliamo con Fabio Bucciarelli.
Com’è nata l’idea di MEMO?
Sulla scia di un periodo editoriale non favorevole, abbiamo sentito l’esigenza di creare qualcosa di diverso, e deciso di unire le nostre energie e il nostro lavoro per dare vita ad una rivista interattiva con lavori di documentazione multimediale, sfruttando le capacità del digitale. Credo che questo possa essere un momento giusto sia da un punto di vista generale, rispetto allo stato dell’editoria, sia da un punto di vista più personale. Tutti noi fotoreporter di MEMO ci occupiamo di tematiche documentaristiche, ma con visioni eterogenee, anche molto diverse tra loro. Io e Manu siamo prevalentemente orientati verso la copertura dei conflitti contemporanei e dei loro aftermath, Guillem Valle e José Colón lavorano più su progetti a lungo termine da zone di conflitto ma meno legati alla news, mentre Diego Ibarra Sanchez si sta dedicando da tempo a un progetto sulla polio in diversi paesi, come Pakistan, Nigeria, Afghanistan. Credo che unire visioni differenti possa dare un valore aggiunto al progetto finale. Viene anche da qui la scelta di lavori monotematici, per avere la possibilità di indagare un medesimo focus da angolature e con modalità diverse. Vogliamo usare la nostra professionalità e visibilità sfruttando le capacità del digitale per creare uno spazio editoriale e raccontare storie che in altro modo rischierebbero di non essere raccontate o che sarebbero dette diversamente.
In che modo si sviluppa nella pratica e come sarà fruibile dai lettori?
Si tratterà di riviste digitali scaricabili come App per tablet e Iphone, indicativamente al prezzo di cinque euro. Lavoriamo insieme a Libre, un gruppo di informatici e grafici che si prendono cura di tutta la piattaforma multimediale creando applicazioni ex-novo pensate appositamente per MEMO. Web-documentari, report fotografici, testi, editoriali, animazioni: la scelta della modalità di fruizione del lavoro sarà del lettore. Abbiamo cercato di collocare un lavoro fotogiornalistico di qualità in un contesto digitale.
Il progetto prevederà anche contributi di altri colleghi?
Per i primi due numeri ci saranno i nostri lavori, anche per vedere come si sviluppa complessivamente il progetto, ma sicuramente la volontà in futuro è permettere a professionisti interessati a questo tipo di giornalismo di collaborare. Professionisti provenienti da diversi campi. È una cosa che stiamo valutando.
Ci puoi anticipare qualcosa?
Nel primo numero ci sarà un editoriale di Alberto Arce, giornalista che lavora in Honduras, premiato recentemente dal prestigioso Overseas Press Club of America. Per ogni numero l’editoriale sul tema in questione sarà a firma di un professionista della carta stampata. Il tema del primo numero è la paura.
Nell’ultimo periodo c’è stato un passaggio significativo di giornalisti e fotoreporter all’uso del video e alla sperimentazione con linguaggi multimediali. Che cosa ti configuri per il futuro?
Sì, questo passaggio di cui parli è vero. Bisogna cercare di capirne le ragioni, a mio avviso essenzialmente due. La prima è una ragione di ricerca del fotografo che attraverso il digitale sperimenta altre forme di documentazione legate all’immagine. Anche io quando sono stato in Kurdistan ho lavorato a un progetto di multimedia in grado di documentare la realtà con un registro diverso da quello puramente fotografico. L’altro motivo che porta a questo tipo di scelte è legato al mercato. Il multimedia oggi ha più sbocchi del mercato esclusivamente fotografico.
Per quella che è la tua esperienza, quali sono le principali differenze tra la realtà editoriale estera e quella italiana, che tutti giudicano molto problematica?
Personalmente io lavoro per il 90 per cento con l’estero. In Italia pubblico quasi esclusivamente sul Fatto Quotidiano, sul La Stampa e con voi di Reportage. In particolar modo negli Stati Uniti e in Francia il fotografo ha un ruolo e un’importanza che in Italia fatica ancora ad avere: all’estero la fotografia è vista come un forte strumento informativo. In queste culture editoriali il lavoro fotografico è riconosciuto, considerato e rispettato in modo diverso, c’è molta più cura e attenzione. Da noi l’immagine è usata spesso ancora come riempitivo per la pagina, non come un valore aggiunto, con una forza narrativa intrinseca. Tra i quotidiani La Stampa è l’unico che prova a lavorare con le immagini – questo grazie alla passione di Mario Calabresi per la fotografia, ma è un caso abbastanza isolato.
Mentre il fotogiornalismo italiano riscuote grandi riconoscimenti nei più importanti contesti internazionali, in Italia si è ancora lontani da una vera riflessione a riguardo. Fotoreporter premiati e affermati all’estero se dovessero basarsi solo sul mercato italiano farebbero fatica a continuare a lavorare.
È esattamente così. Una contraddizione in termini. È un momento molto importante per il fotogiornalismo italiano, l’inizio di una nuova generazione di fotogiornalisti. Durante gli ultimi due anni i più grandi riconoscimenti fotografici a livello internazinale sono stati dati a freelance italiani e spagnoli. Questo è abbastanza esplicativo del livello nazionale. Ma così come in Italia, anche in Spagna la situazione editoriale che i fotografi devono affrontare è molto difficile. Per continuare a lavorare non c’è alternativa se non pubblicare all’estero.
Posso farti il mio esempio che è quello che conosco meglio: quando a Marzo sono tornato in Sud Sudan, ho lavorato in assegnato per Al Jazeera America, per AFP e per il Time. In Italia ho scritto unicamente per Il Fatto Quotidiano. Questo è quanto. Idem per Kurdistan e Ucraina. Questa situazione è simile a quella di altri colleghi italiani e spagnoli. È un vero peccato.
Sei appena rientrato dall’Ucraina. Che cosa sta succedendo realmente nel Paese?
Durante l’ultimo mese ho assistito ad una fase di passaggio da conflitto a guerra civile. Un periodo di tempo dove le forze in campo non sono chiare, dove non esiste una vera linea di fronte e senza organizzazione alcuna. Nello stesso luogo in cui il giorno prima c’era un check-point ucraino, il giorno dopo poteva esserci un check-point pro-russo, come in un limbo intermedio che rende molto pericoloso il territorio. Mentre nelle grandi città, come a Donetsk, la vita essenzialmente continua uguale. Documentare questo tipo di conflitti è complesso, è molto difficile capire con anticipo cosa possa succedere, dove e quando. Se ci si sposta verso Krasnoarmeysk può succedere qualcosa a Mariupol, o viceversa. Insomma, una situazione non chiara, instabile e ambigua. Stancante, che aumenta molto la percentuale di rischio.
photo credit: Fabio Bucciarelli
“Giovane ragazzo Dinka gioca con una carcassa vicino al Cattle Camp di Yirol, Lakes State, Sud Sudan”.