Le diverse anime della fotografia contemporanea: Intervista a Tiziana Faraoni

di Maria Camilla Brunetti

“È un momento di fermento e di impasse. Come se ci stessimo chiedendo: E adesso? Che succede? Come possiamo portare avanti la tradizione, la storia e coniugarle con il futuro?”

A sollevare questi interrogativi è Tiziana Faraoni, photoeditor de L’Espresso e direttrice artistica di FotoLeggendo, una rassegna che indaga le diverse anime della fotografia contemporanea, organizzata da Officine Fotografiche – giunta quest’anno alla sua decima edizione – in programma a Roma fino al 4 luglio.

Da quali domande siete partiti nella fase preparatoria di FotoLeggendo? Qual è stato l’orientamento nella scelta dei lavori e dei fotografi esposti? Ci sono progetti e professionisti molto eterogenei, che propongono visioni e pratiche anche molto distanti tra loro.

Come comitato scientifico abbiamo riflettuto a partire dal periodo storico che stiamo vivendo che credo sia di grande trasformazione – di grande fermento – e allo stesso tempo anche di immobilità. A volte, si ha come l’impressione, che la fotografia non sappia come muoversi. Ci sono nuovi mezzi, nuovi strumenti e la fotografia, così come noi, si guarda intorno per capire. È un periodo di transizione. Per questo, anche se FotoLeggendo ha sempre avuto una forte attenzione alla fotografia documentaria e ha una tradizione fotogiornalistica, quest’anno abbiamo deciso di porci delle domande e di porle agli altri; dare direzioni diverse, fare vedere altri sguardi, non chiuderci in un genere e al contrario scegliere autori completamente diversi tra loro. Tanya Habjouqa, per esempio, ha un approccio certamente fotogiornalistico ma molto diverso dal fotogiornalismo per come noi lo intendiamo normalmente, quindi molto legato ai conflitti, alla guerra. Pur lavorando a Gaza con il suo lavoro riesce a descrive la Cisgiordania in un modo altro da quello al quale siamo abituati quando vediamo qualcosa dalla West Bank. FotoLeggendo, nella sua programmazione complessiva, è un evento che porta a Roma alcuni dei più importanti interpreti e professionisti della fotografia e del fotogiornalismo internazionale e tutti gli incontri, le mostre, le letture portfolio, i workshop sono gratuiti. Micha Bar-Am uno dei fotografi più importanti di Magnum,il 12 giugno terrà una giornata di studio sull’immagine documentaria aperta a tutti coloro che vorrano partecipare. Tutto questo gratuitamente. È un vero regalo che Officine fotografiche riesce a fare ogni anno da dieci anni a Roma e ai suoi abitanti.

Possiamo approfondire un po’ alcune caratteristiche di Occupied Pleasures il progetto di Tanya Habjouqa che hai curato per FotoLeggendo, vincitore del World Press Photo 2014? È un lavoro molto intimo che offre uno sguardo inedito su una realtà tra le più complesse del contemporaneo. Gaza e la Cisgiordania.

Tanya abjouquaSì, il suo è uno sguardo che testimonia il desiderio e la capacità di fare vedere anche altro rispetto a un territorio che vive una condizione di conflitto – possiamo dire – costante. In molti hanno raccontato le complessità della West Bank ma quasi nessuno ha saputo raccontare la quotidianità – la vita di ogni giorno – di una popolazione nella sua “normalità”, con i momenti ironici, quelli goliardici, persone che nelle difficoltà riescono a vivere momenti di serenità, di gioia. Ogni foto del lavoro di Tanya riesce a raccontare una storia a sé. Anche le sue didascalie sono particolari. Non descrivono solo la storia e la foto. Ogni fotografia racchiude una storia della Cisgiordania. Per esempio, nel caso della foto con i due leoni e la donna sulla panchina, la didascalia non descrive solo ciò che succede in quella specifica immagine scattata allo zoo di Gaza ma descrive la situazione degli zoo a Gaza, che hanno subito un crollo economico, i cui guardiani hanno dovuto inventare soluzioni per riuscire a non chiudere. Le fotografie di questo lavoro raccontano storie, storie di vita normale in un contesto come Gaza, con una sensibilità che riesce a essere anche ironica. Immagini che riescono ad avvicinarsi a noi, momenti passati in famiglia, sereni e altri più difficili, la vita di ogni giorno in un luogo perennemente sotto assedio.

I confini della fotografia documentaria oggi possono sembrare fluidi, molto mobili. Cosa vedi nel futuro del visual storytelling, nell’utilizzo che i giornalisti e fotoreporter fanno del video, del documentario, con un orientamento che sembra veda verso una fusione e una commistione dei linguaggi?

Per i fotoreporter credo che iniziare a usare il video sia stata un’esigenza dovuta al fatto che in alcune situazioni possono avere sentito la mancanza della parola. Quello che sta cambiando oggi, credo sia il modo di fruire il fotogiornalismo. Oggi è fotogiornalismo chiunque con una foto scattata con il proprio telefono denunci un’ingiustizia e non solo perché l’immagine non è composta bene significa che non sia altrettanto importante. Questo non toglie che oltre all’immagine immediata e al suo valore c’è anche la storia del professionismo e dei professionisti, che hanno dedicato e dedicano a questo lavoro tutta la loro vita, che si sono impegnati in un percorso e si devono confrontare con un ambiente che sta vivendo cambiamenti enormi. La carta stampata sta diventando quasi un mondo d’élite mentre l’editoria digitale si sta aprendo. Credo che tutti in questo momento si stiano chiedendo come far fruire la fotografia di qualità in questo nuovo mezzo.

Per lavorare su progetti di denuncia e su lavori più a lungo termine i fotografi devono potere guadagnare. In questo momento ho l’impressione che ci sia anche molta confusione su come dover gestire internet a livello economico, finanziario. Ci troviamo davanti, in qualche modo, a una quantità enorme di immagini e a una certa ignoranza da un punto di vista fotografico che stanno soffocando la qualità del lavoro fotogiornalistico. Per molti la fotografia si riassume in un clic, quando dietro c’è una disciplina, con una storia, uno studio, una tradizione, una tecnica. Una disciplina che ha creato e vissuto cambiamenti epocali, una lunga storia di evoluzioni. I fotografi per primi, in questo momento, sperimentano. Con il video e con la fotografia stessa, si allontanano dal loro stesso modo di fotografare, di vedere, s’interrogano sperimentando modi diversi per raccontare. È un momento di fermento e di impasse. Come se ci stessimo chiedendo: E adesso? Che succede? Come possiamo portare avanti la tradizione, la storia e coniugarle con il futuro?
Un po’ come quando dall’analogico si passò al digitale.

Tutti oggi stiamo sentendo il cambiamento e non sappiamo bene dove vada. Siamo tutti allo stesso tempo curiosi e un po’ spaventati. Pensiamo al cambiamento del ruolo del photoeditor in relazione a internet, per esempio. Internet funziona in un altro modo rispetto alle immagini. Su determinate cose internet scavalca, per esempio le immagini nelle homepage dei quotidiani online sono tagliate. Allora cosa fai? Ci sono fotografie che si possono tagliare e fotografie che non si possono tagliare? E via dicendo. Si complica tutto in un certo modo ma allo stesso tempo ci sono stimoli nuovi per ciò che succederà da qui in avanti. A questo si aggiunge una specificità italiana. Le cose qui avvengono sempre un po’ più lentamente.

Quali sono le differenze in ciò che si cerca, che si chiede – giornalisticamente parlando – in altre culture giornalistiche rispetto a quanto succede in Italia? In che modo cambia il ruolo del photoeditor e l’importanza che si dà all’immagine documentaria?

In Francia o in America il ruolo del photoeditor è completamente diverso. Così importante che i photoeditor sono considerati directors of photography. Sono interlocutori diretti dei direttori, il loro ruolo è quasi più importante di quello che nei nostri quotidiani – settimanali o magazine – è dell’ufficio centrale. L’immagine ha un ruolo forte, in queste culture editoriali – centrale – importante quanto quello della scrittura, anzi i due linguaggi si devono compensare e non schiacciare. Si devono alimentare e supportare vicendevolmente. Una cura estetica rigorosa. Grafica, fotografia e scrittura dovrebbero riuscire ad avere una tale unione e sintonia che l’articolo sarà così equilibrato che io, come lettore, mi fermerò non solo per l’impaginazione ma mi fermerò per l’immagine, mi fermerò per il testo.

 

photo credit: Occupied pleasures – Tanya Habjouqa

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