di Jean-Marie Gleize
traduzione di Michele Zaffarano
La M.S.V. non è la casa senza volto, anche se per certi aspetti (i suoi tappeti di velluto terroso, i suoi corridoi inclinati, i suoi soffitti blu, i suoi muri e le sue pareti di pietra) è a una casa che potremmo paragonarla, se ci offrissero abbastanza tempo libero: senza mani, senza volto.
Mi chiedo che cosa ci spinge a parlare della M.S.V. Che cosa spinge (alcuni) verso di lei. Per quanto riguarda quello che ci spunta sopra (confidando che la risposta alla questione ci guiderà verso la risposta all’altra questione, inizialmente più difficile, del “verso di lei”), è precisamente quel qualcosa di verde che non si ha paura (in mia presenza) a chiamare con il nome di erba. È comunque vero che su quest’argomento è potuta sorgere una discussione: se cioè si trattasse di erba e non invece di intonaco, il quale intonaco, ondeggiando in maniera modesta (per lo meno a una certa distanza), ne mimava, se vogliamo, la presenza.
Quella che qui spunta e fa schiuma in spesse placche (dobbiamo però insistere: solo “fino a un certo punto”, dopo di che quella che sfila è la nudità) è erba, ed è intonaco dipinto, dipinto con il colore dell’erba, di quella che c’è lì. Cedendo alla tentazione, alcuni vanno a vedere da più vicino.
Sotto l’erba ci sono: i diversi strati della terra, umidi, e una specie di grata su cui si accumula (massaggiata a mano dall’artista che è appena apparso) una schiuma che all’inizio è bianca, nevosa, ma che poi s’indurisce subito, e che tutto fa pensare essere intonaco.
È così che tutto quest’altorilievo della M.S.V. forma un bassorilievo, e questo – per noi è normale – a noi evoca anche quello che potrebbe avanzare dopo un pasto, gli ossi e le bucce di uno di quei pasti (magari fatto proprio lì, fra i sassi dell’erba, nel bel mezzo del verde, a metà pendio) che si vedono in certi musei, di preferenza greci – ma di quelli con più mitologia.
Però non è così in alto o così in basso che bisogna andare, all’inizio: deve ora (il viaggiatore) passare oltre certi corridoi oscuri. Ed è a tentoni che spunterà dentro il capannone. Lì, schiacciato contro i muri, la M.S.V. lo riceve con severità, ballando nella calma, ancora tutta fresca, e questa volta vestita, policroma, pronta a tutte le dita.
Perché va detto che qualche tempo prima uno di quelli (uno dei suoi intimi), messo di fronte a uno o due di questi rilievi, ancora bianchi per un primo massaggio, nudi come l’osso, sosteneva che così ce l’aveva “tra le dita”. E si preoccupava perché bisognava ancora – e sarebbe stata una cosa lunga – provvedere al trucco, senza il quale la natura ha sempre freddo.
È di fronte a quell’arrossamento che un altro, stavolta un estraneo, ha chiesto se veramente, se finalmente gli intimi avrebbero potuto essere loro ad attestarlo.
Camminatori che (sbattendo i piedi) si lanciano dentro i lavandini della roccia.
Nei canali dell’alveare i sassi si sfregano facendo un rumore da settembre. Il pino nero intossica quelli blu.
Indicando con vivacità che collocandosi o spostandosi in qualunque punto elevato, se ne vede una cima. A quel punto i pini spariscono. Del trucco non resta più granché. Le labbra del sentiero si sono fatte pallide. Generalmente la cima è uno dei suoi due picchi biancastri (il più alto dei quali, si dice, sarebbe quello chiamato des Mouches). Si osa appena dire di più, tanto i rami e i tetti, le ringhiere e i fili per stendere i panni variano, e si mettono in mezzo occupando tutto lo spazio.
Quindi (per riassumere): 1) è sempre da lontano che la si presuppone, 2) all’estraneo (scioccato da certi arrossamenti) bastano a volte poche parole per essere rassicurato, 3) spesso bisogna strizzare gli occhi (uno sforzo), 4) quanto alle mosche, vengono rivendicate però non c’è niente di sicuro.
I musi della M.S.V.: da quella parte, visto che a volte ci si va a mangiare, ci immaginiamo che, nel vuoto delle sue scale, nelle pieghe che fa la sua moquette, alcuni dei viaggiatori abbiano il presentimento della frutta. Il succo che da lì scende, immediatamente inghiottito e disperso, se ne va sempre più lontano in fondo alle tasche (senza dubbio in maniera degna). In fondo, sotto i passi di chi continua a calpestare le salite, i nodi e dossi del rilievo. Quindici giorni più tardi, il letto del sasso si trova disseminato di quella particolare mela, bruna e piatta.
Ed è dentro quel letto che bisogna riportarla. In mezzo alle lenzuola trasparenti della sua grata. Per costringerla nel giro di qualche stazione, in fretta, (com’è stato appena fatto), al suo compimento pornografico.
Il dipinto di Mont Sainte Victoire è di Paul Cezanne, 1900