Arte e poesia in Tevez, Gervinho, Pjanic, Higuain, Callejon e Borja Valero
Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo
che il mio bianco taccuino sotto il sole
Sandro Penna
Ben custoditi in cd per nulla ingombranti, i filmati del campionato italiano 2013-14 si adagiano sull’infinito scaffale della Memoria. Vincitori e vinti salutano. Molti di loro saranno ancora in campo tra meno d’un mese, nell’avventura mondiale in Brasile; altri saranno lasciati liberi ma non avranno più come destinazione estiva Forte dei Marmi, Lido di Camaiore o Diano Marina bensì Miami, Las Vegas, Tampa, San Francisco, oppure il più sperduto atollo del Pacifico dove, si dice, la sensazione del paradiso non ha proprio contorni metafisici. Momento dunque di distendere annali, sognare un poco e non lasciarci sopraffare dalla realtà che, come sappiamo, è testarda. Come sempre avviene, c’è bisogno del sigillo italico per decretare in sommo grado un calciatore. Luisito Monti, Raimondo Orsi e l’uruguaiano Michele Andreolo divennero qui campioni del mondo. Sivori era già Omar a quattordici anni, ma divenne il vero grande incisore del tempo da noi. Lo sarebbe stato ovunque ma in Italia comprese il significato delle tagliole e degli agguati non soltanto dei marcatori ma anche dei mister, Heriberto Herrera tra questi. Falcao era già lui con l’Internacional di Porto Alegre e con la maglia verdeoro ma fu l’Italia a decretarlo, negli anni ’80, il più grande centromediano metodista brasiliano ed europeo. Qui, addirittura, seppe riproporre un ruolo antico ormai dimenticato e forse fu con lui che un poco iniziò ad incrinarsi il vecchio modulo e a rivalutare dunque il centrale non soltanto come marcatore ma anche come dispensatore di gioco, ed elargitore di gemme.
D’accordo, Franz Beckenbauer non agiva più tra le pareti dello stile ed era marmoreo ormai nella galleria degli antenati ma la sua “ragion pratica” e le sue metafisiche le aveva ampiamente esposte. Da parte sua, Diego riportò Napoli ai fasti di città di scienza e filosofia e il mondo s’accorse nuovamente di quel faro, dei suoi colori e dei suoi sacri bassifondi. E Diego era il più grande anche prima d’addivenire “nolano” e “borbonico”. Nolano come dimoratore tra gli astri, tra le sfere superiori, tra l’inaudito; borbonico come eroe d’un faro che sembrava riaccendersi. Tutto questo per dire che l’Italia dona l’alloro ai già grandi ma la particolarità del suo campionato è che sa far emergere anche calciatori che, altrove, non avrebbero forse tanta gloria.
Per il campionato appena concluso possiamo chiamare in scena sei calciatori, sei stranieri, che più degli altri hanno lustrato il fondale italiano: Tevez, Gervinho, Pjanic, Higuain, Callejon, Borja Valero. Ci sentiamo nel tepore più ampio a nominare questi sei distillatori di senso. Carlitos Tevez sorge tra noi come un’apparizione ma non si tratta di epifania calcistica, ché, di fatto, conoscevamo bene il personaggio essendoci posizionati da un decennio sulle sue coordinate emotive e di stile, quanto di figura letteraria, viso d’un confine di regole saltate ma con codice ben preciso in un luogo assolato e ai margini; di suburbio ultimo, dell’eterna rivalità tra spirito criollo e gringo, e ancora del sole calante in un cortile d’un Borges adolescente e lesto sia d’iride che di cuore, lesto a registrar tutto, anche il battito di chi, remoto, deserta la strada. E’ una Buenos Aires di distanze, di silenzi e d’un lesto apparire di coltello. Tevez rimanda allo sfinire dell’Ottocento, ed è, insomma, L’alma del suburbio in cui Evaristo Carriego evoca un tramonto in una strada mutatasi in cortile con la povera gente che quasi si stupisce del possesso delle povere cose e in un cantuccio persiste il gioco delle carte mentre s’impenna, nelle sue categorie, un organetto: “Per la strada, la brava gente fa spreco/di parole cenciose e lusinghiere,/ perché al ritmo di un tango, La morocha,/ fanno mostra di gran ballo due orilleros.” E se las orillas sono periferie della città, ecco che due orilleros sono due eroi/figuranti dell’orlo estremo della città. E uno di essi può essere tranquillamente Tevez, perfetto anche di nome, il cui volto è lontano nel tempo e, in un certo senso, s’è già visto nelle orillas di fine Ottocento e inizio Novecento. Il suo volto è da predatore, come pure i suoi movimenti; e la difesa del pallone è il primo incantamento per noi: è come se egli stesse difendendo l’uscio di casa tra uno sfilar di carri colorati nella polverosa strada d’ogni dimenticanza e di rinnovati rituali. La sua bocca è chiusa soltanto quando è nella foga dell’azione, negli istanti del movimento che solleva il suo repertorio da quello di qualunque avversario; e invece è aperta quando il fortilizio ha retto e l’avversario, ripartendo, l’ha spuntata; e proprio in simili momenti che il profilo di Tevez si fa remoto, come incattivito dal ricordo d’una zuffa, dall’ansia d’una rivincita che si coglie vittoriosa; ma in tali istanti quella posa a labbra distanti svela anche una lunga rammemorazione – di insegnamenti al tramonto, di mister stanchi, di recinzioni cadenti, di docce precarie, d’un vecchio guardiano – se lo sguardo sembra vagare in più punti del campo che sono poi le varie fenomenologie dell’azione che nasce.
Tevez potrebbe anche riguardare una nostra periferia anni ’50, romana soprattutto, e l’esaltazione d’una domenica in camicia bianca, d’una festività all’angolo tra via dei Quintili e via dei Lentuli, in un Quadraro di case basse e colori screpolati e usci con tenda e poi balconcini a ringhiera aragonese. Si ama Tevez per tutto l’universo che sa sollevare con la sua presenza, per quel vissuto in più con il quale noi ci balocchiamo, per il suo essere tante cose e non soltanto un attaccante. A proposito di Tevez si potrebbe anche dire: quale numero lo dovrebbe accompagnare? L’ho studiata bene la faccenda e sono arrivato alla conclusione che ogni numero è per lui sbagliato; egli è un senza numero e infatti può un predatore definirsi/confinarsi con un numero? Sarebbe come accreditare un codice fiscale ad un pistolero anche in uno West saggiamente ricostruito negli Studios. E, allo stesso modo, stonerebbe il cognome per qualsiasi personaggio del poema epico argentino “Martin Fierro”. D’un gaucho, nell’epica della pampa, si può sapere il nome ma non l’eventuale colore del cognome. Al massimo il soprannome che lo potrà distinguere nello scenario d’allevamenti, di staccionate, sotto la luna d’un regolamento di conti e poi di distanze. Tevez non può essere siglato col 7, col 9, col 10, e questo, penso, proprio per il suo essere tanti affreschi contemporaneamente, e se ammirandolo in campo io per lui sogno più altrove, ecco che il numero mi disturba, mi porta fuori, finisce per disegnarmi un settore di campo che dovrebbe riguardarlo. E per il predatore Tevez, non può essere così. Il gol di Vidal contro la Roma nell’ultima sfida a Torino del 5 gennaio 2014, mette in scena ancora una volta il sublime della protezione della palla e poi del tocco per colui che ha in un lampo dissolto la marcatura. In quel gol di Vidal c’è tutto Tevez, il protettore del pallone ma anche il predatore. Ma i pensieri mutano e i mister polemizzano innanzitutto con la propria mente e questo lo constatiamo dal fatto che, in Inghilterra, Carlitos era spesso un subentrante, vocabolo che potrebbe far rima con soccombente. Ma può egli, negli scenari calcistici attuali, essere un soccombente? E allora è da sottolineare, credo, come il riconoscimento vero gli sia stato donato dall’Italia, e la Juventus lo ha subito elevato facendogli dono del numero 10, che, si sa, finisce sempre sulle spalle della distinzione vera. Tevez per me – per la Ragione che va ad escludere le ragioni tattiche – dovrebbe sempre giocare ed io conterei soltanto gli altri dieci compagni visto che tra la realtà che lo configura – dribbling, difesa del pallone, potenza nell’affronto, sveltezza, imprevedibilità con entrambi i piedi e nitore nell’agguato – e l’elemento fortemente letterario che lo incornicia, egli proprio non può essere un subentrante. Prima stagione in Italia e una valanga di gol. Ma a chi dirlo?
Su Gervinho ci si può esporre con una lunga riflessione a proposito del ruolo dell’ala che, per quanto riguarda l’attaccante della Costa d’Avorio, è di nuovo tipo mai posizionandosi egli sulle linee laterali in attesa del pallone. Con Gervinho l’ala ha un qualcosa anche di fanciullesco, nel senso d’una ingenuità originaria, riferibile al tempo del gioco protratto dall’alba al tramonto. Egli possiede le qualità che si credevano accantonate dal momento dell’irrompere del maestro di calcio e dell’operatore di tattica: con Gervinho lo stato originario è invece rimasto immutato. Egli ha inteso le lezioni dello stare in campo, della presenza di altri protagonisti, del primo altolà/pressing al sorgere dell’azione avversaria e poi del rientro, della copertura, ecco, tutto questo è stato accumulazione ed esperienza ma sopravvive in lui la stagione felice, se così si può dire, il gioco protratto dall’alba al tramonto, in qualsiasi campo, o qualcosa definito tale. Non è la distesa ad essere dinanzi a lui, è proprio Gervinho che “crea” la prateria e questo per l’appunto con l’ondeggiare funambolico, molto elegante, ed un controllo della palla in corsa che, al momento, sulla scena del mondo, ha pochi uguali sulle estreme. Gervinho, dunque, come creatore di praterie da attraversare grazie a se stesso. È lui, dunque, che crea se stesso dopo aver creato lo spazio a lui dinanzi. Pure, non è solo degli spazi ampi il suo essere; egli, di fatto, ignora l’approssimazione nell’uno-contro-uno anche negli spazi esigui, negli affollati luoghi di duello. Imprevedibilità non costruita, non sapienza seconda dunque, ma originaria, primitiva, su cui s’è lavorato, certamente, ma per svelargli cunicoli, vicoli, nascondimenti e improvvise venute all’essere, ovvero epifanie ravvicinate alla porta. Perché Gervinho non è soltanto fuga e creazione di stupori in corsa e fasi nuove scolpite nello spazio che con lui diviene ondulato, no, è anche opportunismo e sublime dissidio col suo corpo flessuoso che custodisce anche – questo appunto l’apparente contrasto non essendo egli un brevilineo – sveltezze e intuizione d’inserimento. E v’è un altro fatto elevato in Gervinho: il sorriso. Esso emerge con nitore e, tra gli attaccanti, è uno di quelli di cui è facile leggere l’armonia interiore che s’avvista proprio a ragione del continuo sorriso e d’una quiete buona nelle fasi transitorie, nei tempi non classificabili perché esenti da epica: rimesse laterali, sostituzioni, sospensioni di gioco, azioni lontane. Ora è da dire che Gervinho non fa distinzioni su chi lo lancia – le profondità sono i suoi stati dell’anino – ma è anche vero che gli occhi gli scintillano quando al volo, oppure lestamente, d’esterno negli spazi stretti, è Totti a decretarlo abile per il dirimpetto col portiere. Pure, ama le soavi frisate di Pijanic come pure il palo lungo da raggiungere su cross di Maicon; in simili casi s’avventa scherzoso/gioioso e, se segna, nitida si rappresenta la felicità d’un fanciullo ben disegnando alla Curva il cuore con le dita d’entrambe le mani.
S’è nominato Miralem Pjanic ed è una fortuna per la poesia del centrocampo ed anche per la Poesia in generale perché è bello decretarlo il filamento estremo, su un campo di calcio, di Paul Verlaine. E del poète maudit, nativo di Metz e ospite definitivo del “Café Procope”, in una Parigi da Boulevard des Capucines, nel luogo sacro delle immortali impressioni su lastra di Nadar, Pijanic ha lo sguardo, la fronte bombata e molto ricorda l’autore de Fêtes galantes; certo, se avesse occhi un po’ più da gattone e la barba più folta, la rassomiglianza non sarebbe soltanto un’impressione. Ma ora che il suo sistema ormonale è perfetto e non s’avvista una calvizie più o meno severa, la mia resta soltanto una fantasia tra il fuoriclasse bosniaco e l’autore di Sagesse. Confido nel tempo e nei sogni allestiti, fedeli compagni di vita, e molto spesso avviene che, d’improvviso, i sogni accadono di fronte al nostro usuale stupore. Se in Pjanic si realizzasse una tale mutazione estetica – una chioma rada sarebbe l’ideale, accompagnata da una barba folta – egli sarebbe perfetto come attore per un Verlaine in cilindro e bastone nell’età di mezzo, disperso sulla traiettoria Parigi-Bruxelles-Londra e ritorno, con una infuriata Mathilde Mauté e un Rimbaud soave affittuario della vita. Va bene, s’è volato alto ma questo perché si vorrebbe quel mondo ancora tra noi e benedetto sia dunque Pjanic anche per le sue involontarie ri-proposizioni di scenari sognati, di vagabondaggi all’insegna del verso autentico senza minaccia tecnologica. Ma viva anche Pjanic per le sue geometrie, le sue turbolenze liftate con pretese alla Zico, e poi i suoi raggiri, le prese in giro in ritagli affollati, gesti da vero gentlemen, tra Dragan Stojkovic e Robert Prosinecki; e poi le sue finte a ripetizioni che, contro il Milan all’Olimpico, gli hanno consentito di lesionare un’intera difesa prima di superare un Abbiati predisposto ormai alla quiete, come uno stanco guardiano di garage.
Nello scenario azzurro di Napoli, Gonzalo Higuain si trova nella piacevole situazione d’accodarsi – ma soltanto per progressione temporale – ad Attila Sallustro, centravanti italo-paraguyano del presidente Ascarelli negli anni ’30, ad Hasse Jeppson, Amadei, Luis Vinicio, Altafini per giungere quindi a Carnevale, Giordano e Careca. Gonzalo Higuain, ovvero la bellezza già in una corsa che è soltanto sua e che, si direbbe, si compone a passi lievi, morbidi, d’egual misura e, in certi momenti, quasi in punta di piedi. Ora egli mostra eleganza già nel chiedere la profondità e poi nell’andarla ad agganciare ed eventualmente rimodellarla per un compagno più felicemente piazzato; e le movenze sono vera attrattiva e a me già è sufficiente ammirare la progressione, la finta a sbilanciare e poi il ragionamento perché egli è si centravanti ma sa anche impostare da centrocampista e questo a ragione della unicità del suo passo, delle giuste pause, spontanee e studiate, delle sapienti recite di testa e di corpo. E alla fine, a me pare che il gol sia un di più perché è nella preparazione d’un agguato che Higuain è sommamente bravo. Oppure, a dir meglio: a me basta già tutta la rappresentazione che è prima del gol. Ora il suo volto richiama ad una nobiltà di spada e mostrandosi spesso con basette lunghe o con una barba che gli ricama il volto soltanto “a cornice”, vale a dire a discendere dalle basette e nettare sotto zigomi e baffi, egli pare possederla sul serio una encomienda per giusta concessione d’un Filippo II, ed essere Cavaliere dell’Ordine di Santiago o di Calatrava. Un’eventuale barba completa, seppure morbida e compatta, ne appesantirebbe il volto, renderebbe il suo aspetto più da uomo compiaciuto e soddisfatto e meno da atleta. Se parlato del suo procedere, del suo passo singolare, quindi della bravura nella profondità e nell’orchestrare con tempi sapienti, comprese le giuste finzioni, l’offensiva, ecco, ma tutto questo non può oscurare le sue puntualità in area, il suo lesto anticipare l’avversario, l’elegante agguato, di testa o di corpo è lo stesso. A proposito di Higuain, Maradona ha detto che egli rappresenta la giusta sintesi tra Balbo e Batitusta; difficile discutere le riflessioni di Diego, quello che si può affermare è che i due ex centravanti possedevano un tiro da fuori area difficilmente imitabile, dono questo che non appartiere al repertorio di Higuain. Tiro imprevedibile dei due ex centravanti e che difficilmente non immortalava la porta. E a me sembra che Gonzalo lo dica meno d’essere un centravanti, quasi che non sembri tale, e questo, forse, per un nuovo modo d’interpretare il calcio. Che Balbo e Batistuta fossero centravanti lo si vedeva già dal sottopassaggio ed essi erano tali anche senza l’eventuale numero 9 sulle spalle.
Per lo spagnolo José Maria Callejon si tirano in ballo gli anni ’30. Si tratta, in vero, d’un sopravvissuto di quel decennio, ed egli, accanto a Sergio Conceição, in una Lisbona più sognata che reale, sarebbe seduto al tavolo accanto a Fernandinho Pessoa, quest’ultimo intento a narrare, con atti composti e sguardo chiuso su di sé, l’anarchia d’un banchiere. Il volto di Callejon è proprio di quell’epoca, la chioma lustra, all’indietro, gli zigomi in evidenza e lo sguardo da grande profittatore della spensieratezza. Esemplare d’abito con giacca in doppio petto e pantaloni larghi con risvolto; e poi camicia a colletto tondo, rigido, munito pure di fermaglio. Lo avvisto in lieta conversazione con l’altro grande reduce di quegli anni, Sergio Conceição. Dalle frasi brevi ma nitide, sembra che debbano recarsi ad un appuntamento. Ogni tanto un sorriso di Callejon cui fa da contraltare la composta malinconia del portoghese. Sono due ali destre ma non parlano di schemi e profondità, del resto siamo negli anni ’30 e allora, al massimo, li si può sentir parlare di Ricardo Zamora, e d’un già intercontinentale José Leandro Andrade, gigante uruguaiano di difesa. L’immagine si dissolve subito ma è sollievo l’averla composta; quasi sembra ancora vivo Pessoa. Sguardo scaltro, Callejon è un’altra lieta sorpresa di questo campionato che ormai sta composto sullo scaffale del già visto, dei ricordi. Egli è quanto ha illuminato non soltanto la fascia destra del Napoli ma, direi, anche il centrocampo azzurro. Higuain sapeva chi scorribandava con precisione sulla destra; sapeva che esiste uno strano tipo di delantero, vale a dire il geometrico e fastidioso e instancabile. Ecco, potremmo dire che Callejon è tutto questo: esterno geometrico e fastidioso, soprattutto nell’aggredire la manovra altrui, e poi ficcante nei cunicoli compostisi per astuzia propria e per mancanze altrui. E inoltre: inesauribile cursore con piedi più che buoni e uno dei pochi ormai – ancora una volta un superstite – a saltare l’avversario di fronte, al pari dei suoi compagni di squadra Insigne e Mertens. Con qualche recupero odierno, una volta si diceva: “Conclude di giustezza”. Ecco, possiamo usarla ancora simile argenteria e dunque affermiamo che Callejon quest’anno ha saputo spesso “concludere di giustezza” e questo perché anche l’astuzia è nel suo sguardo e nel suo repertorio, astuzia nel senso di puntualità nella area piccola, tra le fioriture dei rimpalli, tra le divagazioni di mai acclamati stopper. Cosa dire oltre se non sederci di nuovo in quel bar di Lisbona tra Fernandinho Pessoa che nel frattempo ha iniziato a scrivere qualche riga alla sua fidanzata e Callejon e Sergio Conceição che discutono di donne come Vittorio De Sica e Roberto Villa in Maddalena zero in condotta?
Borja Valero doveva vincere qui e ha stravinto. Che poi possa o meno far parte della selezione di hidalgos per il Brasile, interessa poco. Egli ha vinto qui ed il centrocampo della Fiorentina ha avuto in lui un pilastro. Arrivato in silenzio, custode della sua penobra fortificante, s’è imposto lentamente come cursore elegante e tenace, difficilmente disposto a mollare anche il più marginale dei palloni contesi. Costruttore di confine, caparbio assertore della linea dove pare più esaltante il contrasto; non geometrico disposto al centro – si ricordi Antognoni, si ricordi Baggio – è stato spesso il “cavalero” sgraziato ma efficace che giungeva solitario – in dialogo o dopo ripetuti e vinti contrasti – in area lì creando anche traiettorie proprie d’un passato lucente: effetti alla Julio Alberto o carezze geometriche d’un Ricardo Gallego. Anche a ragione della particolarità del nome e dell’impegno profuso in ogni partita, s’è provato subito affetto per Borja Valero e ci si è interrogati sul perché non abbia vinto nella Spagna imperiale, magari soltanto osservando le sfide dalla panchina. Che cosa è egli tra Aquilani, Quadrado, Pizarro e Vargas? È il passato solenne della storia non rintracciabile negli sguardi dei suoi compagni di reparto, tutti col volto straordinariamente attuale ad eccezione, forse, di David Pizarro che un richiamo alle atmosfere anni ’60 di Marino Barreto lo solleva anche se è un sublime minimo, certamente non una tela del Goya. A proposito della pittura, un volto come Borja Valero non poteva che finire a Firenze. V’è stato un momento in cui egli s’è mostrato con la barba, fitta e maestosa. Una figura del Ghirlandaio? Quale grande immersione nei dipinti rappresentava per me! Erano immagini di tutta la pittura italiana, e si sollevava così un’altra squadra, quella degli d’artisti che era poi l’Italia con il pennello in mano. Borja Valero poteva essere in un dipinto tra santi, vecchi uomini riversi nella speranza ma forse il suo volto era quello dello stesso pittore, immortalatosi in un angolo della tela. Erano scorci di città ideali oppure un tramonto con, sullo sfondo, la Gerusalemme celeste. E allora, con quella barba, non m’ìnteressavano più le sue incursioni né, tantomeno, le coperture, e neppure rendermi conto se Quadrado dribblava come Faustino Asprilla. No, per me in campo c’era soltanto Borja Valero con quella barba da apostolo e quello che egli rappresentava d’un rinascimento in movimento, in pressing. Ma il fatto triste è stato che nessun avversario, durante il gioco fermo, per un fallo oppure una sostituzione, oppure rientrando negli spogliatoi, abbia saputo sussurrargli: “Mi sembri uscito da un dipinto di Guido Reni…”.