Abu Salim e sua moglie arrivano da Hudaydah. Hanno l’aria di due persone che non hanno mai messo il naso fuori dal loro villaggio. Lui mantiene un certo sospetto per chiunque gli si approcci; lei si guarda intorno dubbiosa. Ma quando il direttore del Childlhood protection center di Haradth li fa accomodare nella stanzetta dei ricongiungimenti familiari, tutta linda e bianca come la sala di aspetto di una clinica per pazienti benestanti, dichiarando che il loro figliolo Ahmad, 13 anni, è qui, Abu diventa improvvisamente loquace. I toni si alzano. La donna piange, grida. L’uomo sbatte i pugni sul tavolo. Ci vuole l’intervento di due operatori sociali e, qualche minuto dopo, l’arrivo del ragazzino, per mettere fine alla bagarre e fare precipitare l’ufficio in un silenzio imbarazzante. Ahmad si siede e fissa i genitori. Non un abbraccio, non una parola. Solo a questo punto la madre fa un cenno al direttore e chiede di mettere le sue impronte digitali su di un foglio. Il marito lascia fare, poi esegue anche lui. Sul foglio c’è, scritta nero su bianco, l’ammissione della loro “colpa”: abbiamo venduto nostro figlio una volta e promettiamo di non farlo mai più. Se lo rifaranno, lui andrà in prigione. (…)
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