di Fernando Acitelli
Giancarlo Antognoni, uno dei più grandi talenti calcistici italiani, un numero 10 autentico, evento irripetibile a tutto campo, è prossimo al traguardo dei sessant’anni, quell’età di confine in cui, un tempo, le persone migravano nella brughiera della pensione iniziando un vero duello con la noia e, anche, con la depressione. Un tempo arrivato malamente e in cui decollava, per l’uomo comune, il significato delle file agli sportelli del Patronato, dell’Inps, dei circoli ricreativi, dell’Enal per intenderci, con vetrine imbiancate per non far vedere il divertimento all’interno; un tempo nel quale gli uomini più astuti evitavano le bocce associandole ad un lento agire che dava confusione alla mente, ne offuscava emisferi e zona limbica, e insomma tutto il contrario di quanto accadeva in una bisca con le “sane” imprecazioni al biliardo o al gioco delle carte dietro separé modulabili e identici a quelli delle soubrette nei loro camerini con diffuso odor di talco. Che Giancarlo Antognoni potesse addimorarsi accanto a Leonardo e al Brunelleschi non è una fantasia. I tratti del viso, lo sguardo, l’eleganza, la postura, la chiara visione del gioco (e della vita), lo collocano proprio in quel tempo.
L’esistenza di Antognoni non è stata soltanto la raffinata presenza, l’irraggiungibile nitore della figura che migrava in ogni settore del campo e che poneva, uno accanto all’altro, talento, intuizione e sapere geometrico, no, non è stato soltanto questo e, almeno per me, egli ha rappresentato un “Rinascimento privato”, a dirlo con Maria Bellonci, ovvero una presenza in un campo di calcio che spostava esistenze con le sue intuizioni da fuoriclasse, che faceva esultare folle con le sue cannonate ed i lanci al volo e da fermo, ma che, per il mio animo, spostava all’indietro la congiura del tempo e riproponeva affreschi, liricità di “notari et speziali”, Madonne Belle dietro trifore a ragionar silenziose su messeri intravisti, su condottieri cui la Signoria avrebbe fatto ricorso, oppure su preghiere lievemente interiorizzate, già dimenticate appena dopo uno sguardo dinanzi ad una chiesa o su Ponte Vecchio: una collisione d’iridi sul modello sperimentato, e già tradizione orale, Dante/Beatrice, Petrarca/Laura. Se sono rimasto ancora accanto al calcio, malgrado l’odierna “volgarità” tattica ed esistenziale – l’elogio indiretto, dunque, d’una “grande bellezza” – è perché sono sempre riuscito ad allestirmi filmati paralleli a quelli che si svolgevano in campo. Il mio doppio interiore mi ha salvato e, in un certo senso, ha colorato di significati i personaggi che i miei occhi ed il mio cuore sapevano centrare; e naturalmente anche le loro azioni, le dispute dialettiche, le furiosità che rimandavano a qualcosa di epico e non già di condominiale, feriale, banale.
Dunque Antognoni era anche altrove, soprattutto quando veniva offeso perché “inconsistente”, di passo lento, non combattente ma recluso nelle segrete dell’estetica. Che ci finissero gli altri, se capaci, nelle segrete dell’estetica! Tra il giornalista Ennio Vitanza, da Milano, che non s’espresse mai in termini favorevoli nei riguardi del “Pargolo di Madonna Bella” e Franz Beckenbauer che bollò le critiche ad Antognoni come incomprensibili visto che era il giocatore che in Europa giocava più a testa alta di tutti, quale sarebbe la tesi da sposare? Che, forse, è oscura la risposta? Non so parlar male di chi ha affrescato il tempo ormai lontano della mia giovane età e dunque non oserò tanto neppure con Ennio Vitanza, del quale conservo belle immagini, riferibili sia alle sue giacche a petti larghi sia a cravatte con il nodo importante; e inoltre: ho ancora in mente le sensazioni che seppe donarmi con il suo tono di voce e poi con l’esporre elegante, certamente diverso da quello dei suoi colleghi; ecco, tutto ciò premesso, non posso condividere le critiche ad Antognoni ma in un paese che abbrustolì Rivera (e sotto sotto anche Mazzola), che non riconobbe a Meazza le qualità del fuoriclasse imputandogli negli anni ‘30 bella vita e stravizi – come se “El Diego” non avesse fatto lo stesso pur rimanendo sempre il più grande – come stupirsi che Antognoni non abbia fatto breccia nel cuore della critica sportiva italiana? Rimangono frammenti, lacerti, schegge di sublime per quanto riguarda Antognoni.
Certa memorialistica minore, importantissima, da me incontrata in convegni e cene tra reduci, riferisce ad esempio che in un Torneo di Viareggio, Antognoni, trovandosi nei pressi della sua area di rigore, vide con la coda dell’occhio partire il centravanti Claudio Desolati e, con un lancio da fermo, compose una traiettoria di circa sessanta metri verso il compagno. Il ricordo è autentico e fu espresso una sera durante una cena da tale Roberto Vichi, classe 1954, campione d’Italia con la Roma Primavera per due volte, e poi difensore nel Catanzaro di Gianni Di Marzio; giocando da libero, vide e commentò interiormente quanto aveva appena composto il numero 10 gigliato. Lancio da fermo, dalla lunetta della sua area di rigore, e dunque immediata voce di Vichi al suo stopper Stefano Palmieri d’addossarsi al Desolati in fuga, intento a congiungersi con quel lancio da fermo. E Antognoni era con la squadra Primavera quel giorno. Da quella volta il nitore aumentò ovunque e così, in prima squadra, punizioni con saette all’incrocio dei pali, pallonetti, profondità di vario genere, arabeschi in corsa, cambi passo e finte di corpo, e da ultimo – per lui rinascimentale – sconfinamenti nel barocco più intenso, quell’eccesso di sé inebriante non soltanto per chi lo compone.
Un’altra immagine che spolvero si solleva direttamente da Rotterdam ed è del 20 novembre 1974 (Olanda-Italia 3-1), con Fulvio Bernardini allenatore. Il calcio in pieno viso al ventenne Antognoni glielo rifila il regista olandese Wim Van Hanegem, entrambi in terra. Inutile dire quali eleganze seppe donare in quella serata il ventenne Antognoni in un centrocampo composto da Orlandini, Causio, Juliano e con gli attacchi, sulla fascia destra, di Francesco Rocca. Ma davanti vi erano Cruiff, Neeskens, Suurbier, Krol e, soprattutto, da parte degli Orange, il ricordo dell’estate precedente, ovvero la sconfitta in finale, a Monaco ’74, contro la Germania per 2 a 1. Pure, riaffiorano gol qua e là dell’Antognoni mio privato, rinascimentale, e, per i più, soprattutto da fotoromanzo, magari accanto ai divi di allora, vale a dire Franco Gasparri e Franco Dani. Va bene, allestito anche questo ritaglio estetico. E sopraggiungono così le belle immagini: un gol in una giornata nuvolosa a Firenze: un Fiorentina-Juventus 4 a 1: 11 maggio 1975; ed ecco allora un nitido passaggio di Casarsa sul lato destro per Antognoni e dunque diagonale basso, preciso. Il tutto è iscritto nella memoria e mi ricordo, nel video, come quel gol accada sulla sinistra. Poi v’è un Fiorentina-Lazio che s’impone, con “scheggia” Badiani che marca a uomo, a tutto campo, Antognoni. Deve essere il 1975 perché Badiani è acquisto biancoceleste dopo la conquista dello scudetto; dunque il gol: Desolati da destra invita al centro Antognoni e quanto s’ammira è una saetta del fuoriclasse in diagonale basso. La partita terminerà 1 a 1 e la Lazio era andata in vantaggio con un gran gol di Chinaglia. Superbe cavalcate di Antognoni nei ricordi via via sempre più minacciati dalla nebbia del tempo; grandi cavalcate ma anche finte, tunnel in corsa, giravolte, tiri al volo, tutto questo riemerge negli affreschi riferibili al rinascimentale Antognoni. Vi è anche un Fiorentina-Milan del 1974 che gironzola nella mia mente, e quel giorno “Picchio” De Sisti sbaglia due calci di rigore, neutralizzati con facilità da Pizzaballa. È ancora Picchio che, da veterano e capitano, s’incarica di battere i rigori e poi di limare la manovra, tessere offensive e allestire ripiegamenti, rendere facile e fecondo il difficile; e ancora: tocchettare efficacemente proprio come al tempo del suo essere cucciolo, prima nei campetti del Quadraro e quindi indossando le maglie della Forlivesi poi e della Roma. E Antognoni quel giorno si supera e “consola” il già antico De Sisti, ben undici anni di differenza tra i due. Malgrado i due rigori sbagliati da De Sisti, la partita è vinta dalla Fiorentina per 3 a 2 con reti del viola Saltutti, pareggio di Biasiolo, gol di testa del terzino Moreno Roggi, quindi bolide di Antognoni su punizione e secondo gol del Milan firmato da Benetti.
È tempo di soluzioni tattiche belle e pure, ed il ricordo arreca tepore. Sabadini, terzino del Milan, è uno dei primi a spingere sulla fascia destra; a parte Tazio Roversi del Bologna, sul settore destro non sembra vogliano spuntare fluidificanti e pare che quell’aristocratico pensiero sia riservato alla fascia sinistra, storicamente e in progressione rappresentata da Facchetti, Petrelli, Fedele, Martini. S’avvista ancora Riccardo Sogliano tornante di destra, e in quel settore è lui per me il più bravo tatticamente, e al solo ascolto di quel suono, tornante, io penso a Sogliano per come sapeva proteggere l’intera fascia di competenza. E quel giorno c’è anche Sogliano in quel 3 a 2 in cui la Fiorentina con un Antognoni superlativo batte il Milan. E altre sequenze spuntano, lese, scheggiate e questo appena sollecitando la zona limbica, il mitreo più antico della mente, e qua e là ogni tanto si scopre come un “affresco di santi” o una privatissima “Battaglia di Anghiari”, reperti non proprio nitidi di colore e minacciati da umidità. È dunque la volta d’un Fiorentina-Torino, con Daniel Bertoni in campo con i gigliati; è nel sole ampio di un benessere anni ’80 che tutto si compone; non pare vi siano preoccupazioni in Europa a parte la “guerra fredda”; si respira un sereno lieve ma parole nuove e pericolose come “flessibilità”, “legge di stabilità”, “spread” sembrano appartenere al vocabolario interiore e all’estetica di Philip Dick. In quel tempo c’è soltanto il calcio vero e poi i nostri vent’anni; il terrorismo ha segnato di sangue le strade d’Italia e non è ancora finita; e comunque si legge negli sguardi la speranza per il futuro: un futuro ci sarà. Inoltre, v’è senso della misura e la volgarità se non è ai minimi storici s’avverte certamente come nota di costume. E soprattutto gli individui più che maturi non scimmiottano “l’età pischella” finendo poi col monetizzare ogni cosa, anche la persone.
Ma torniamo a quel giorno, sotto il sole della spensieratezza italica. Cosa accade? Ad un certo punto c’è un taglio argentino sulla destra con Daniel Bertoni che allarga per Antognoni e la traiettoria di quest’ultimo è in diagonale, sempre la stessa, mitica in basso alla destra del portiere Terraneo. Che Antognoni poi debba raddoppiare su rigore dimostra ancora una volta che ogni fase di gioco è per lui motivo d’esibizione ma con valore e non fine a se stessa. Confesso: debbo ricordarmi d’un suo rigore sbagliato; frugo nella mente ma non spunta. Probabile pure che io ecceda nelle mie qualità rammemorative. Quello che invece ricordo benissimo sono le tante traverse centrate su punizione o con tiri da lontano. Più spolvero gli angoli della mente e più prende valore e diventa un’iscrizione quanto detto da Beckenbauer a proposito delle qualità di Antognoni: fuoriclasse e basta chiacchiere. Giancarlo Antognoni irrompe nei primi anni ’70 come un vento impetuoso che spalanca porte e finestre e fa volare vecchi fogli, pergamene e manoscritti. L’aria nuova è la sua figura e la sua modernità. Egli, in vero, possiede una statura europea, di nuova gemmazione, a tutto campo, ma pur sempre nel solco del classicismo italico. Un vasto repertorio di numeri sia in progressione che dopo esser stato vedutista; e inoltre un diverso tipo di funambolismo, nobile, da granducato, quasi con cicisbei e lacchè incipriati a fianco; un funambolismo mai macchiato da furberie o male astuzie della pur amabile periferia. Mazzola, Rivera, De Sisti, Juliano, Cordova – personaggi che definirli soltanto “piedi buoni” sembra essere un’offesa – compresero il tratto nuovo di quella presenza ma, da assi, con le dovute eccezioni, al volo lo accettarono nella Corporazione o nel Club dei Grandi. E Antognoni aveva dalla sua anche la bellezza: bel viso, chioma castano chiara, lunga e ondeggiante nella corsa, più da calciatore olandese/inglese che italiano. Dieci anni e più di giovinezza rispetto ai su citati grandi calciatori, divisi tra il 1942, il 1943 ed il 1944. Tanti anni, un’altra epoca, un altro modo di correre, di aggiustarsi la chioma, di allacciarsi gli scarpini, di prepararsi al tiro, di comunicare con compagni, arbitro ed avversari.
E si composero lunghi articoli per sottolineare il viso del Bell’Antonio e con uno zoom lirico venne “messo a fuoco” anche un punto specifico di quel volto, ovvero il piccolo “spacco” dell’epidermide al mento, ecco, anche su tale incavo di natura, fossetta, finiva l’occhio passionale delle donne. Il 22 novembre del 1981 accade qualcosa di molto grave: in una profondità Antognoni non può evitare un’uscita sciagurata per scompostezza e pericolosità del portiere Silvano Martina del Genoa e il dramma è a un passo. La testa, l’intelligenza, la mente del fuoriclasse è lesionata come un vero affresco e il rischio di morte viene scongiurato miracolosamente in campo. Seguirà l’operazione e poi, lentamente, il completo recupero. Ecco, parlando continuamente d’affreschi, io, a proposito di quel tragico evento conclusosi fortunatamente nel migliore dei modi, non ho mai voluto parlare di operazione – l’ho nominata adesso per la prima volta dovendo io pure scendere un poco, scrivendo, nella realtà – ma di restauro, proprio come si osa per dipinti e opere d’arte da restituire all’umanità. E circa otto mesi dopo quel 22 novembre 1981, esattamente il giorno 11 luglio 1982, l’affresco restaurato diventava Campione del Mondo in Spagna. E il 5 luglio segnava anche una splendida rete al brasiliano Valdir Peres. L’arbitro Klein annullò una gol regolare e smorzò l’esultanza di quell’affresco restaurato, restituito all’umanità e così bello da vedere che non dovrei adesso festeggiarlo per i suoi sessant’anni tutti rinascimentali. E degli altri insulti fisici preferisco non parlare. E già un insulto essere tra le pareti del tempo. Proprio così: essere caduti nel tempo è proprio una brutta faccenda e qui nessun insigne pittore ci può salvare. Chissà se in quella “Città ideale”, da qualche studioso attribuita a Pietro della Francesca, da altri a Leon Battista Alberti, esiste veramente il tempo.