“Ho dieci anni e vedrai che quando ne avrò diciassette correrò alle Olimpiadi. Ecco dove voglio arrivare.”
Si è messo a ridere.
“Aabe, io parteciperò alle Olimpiadi del 2008, a diciassette anni. Ecco dove arriverò,” gli ho ripetuto quella mattina. “Va bene, Samia, ti credo,” ha detto accarezzandomi i capelli.
“Se ne sei così convinta, allora ci arriverai di sicuro.” Poi si è sistemato sulla sedia come a guardarmi meglio, a osservarmi per la prima volta con altri occhi. “Sei una piccola guerriera che corre per la libertà,” ha detto. “Sì, sei proprio una piccola guerriera.”
In Non dirmi che hai paura (Feltrinelli) Giuseppe Catozzella racconta la storia tragica e lucente di Samia Yusuf Omar, campionessa somala di velocità, l’atleta che a soli diciassette anni partecipò alle Olimpiadi di Pechino del 2008. Samia, nata nel 1991 a Mogadiscio, cresciuta nella periferia di Bondere, aveva i lineamenti delicati e meravigliosi delle giovani donne somale, la determinazione di una campionessa bambina, la levità e la velocità degli atleti veri. Catozzella racconta una storia che doveva trovare tutta questa luce, e lo fa con la grazia e la sensibilità di un ascolto assoluto, di una vicinanza intima e profondissima, restituendoci – come un dono doloroso e catartico – la fragilità e la potenza della voce cristallina di Samia, il monito gravido di un destino privato che diviene storia di noi tutti. La sua giovane voce deve farsi la nostra voce, la sua storia deve diventare la nostra storia, la storia del suo popolo, le sofferenze disumane della Somalia e dei suoi cittadini devono diventare anche le nostre. Perché noi tutti, lettori e cittadini italiani – europei – siamo coinvolti. Saremo per sempre coinvolti.
È la storia di un sogno più forte di ogni dolore, quello che Giuseppe Catozzella racconta in Non dirmi che hai paura. Il sogno di una bambina somala che inizia a correre a cinque anni, con le scarpe che erano già state portate da tutti i suoi fratelli, sulla terra bianca, dura e polverosa delle strade piene di buche e cocci di vetro della periferia più povera di Mogadiscio. Samia vuole solo correre, è la più veloce, corre per arrivare alla fine del tunnel in cui è costretta a vivere, corre per fuggire dalla guerra civile che sconvolge il suo Paese. Continuerà a correre nonostante tutto, costretta a indossare il burqa nel caldo soffocante delle estati somale, correrà anche quando sarà costretta a farlo di notte, per non farsi vedere, da sola, contro la violenza, contro la perdita dei suoi affetti più cari, contro l’oppressione. Per sconfiggere la paura e l’abbandono. In mente – a ogni gara, a ogni nuova vittoria – ha solo le parole del padre, che ancora bambina le dice, “Non devi mai dire che hai paura, piccola Samia. Mai. Altrimenti le cose di cui hai paura si credono grandi e pensano di poterti vincere.”
Sa che per vincere deve imparare a volare. Samia impara a volare e diventa l’atleta più veloce del suo paese – così leggera, le gambe da cerbiatto, lievi come giunchi eppure così forti, così coraggiose, così tenaci. Lei, la più piccola, la più giovane, è la campionessa. Nel 2008 è selezionata per rappresentare la Somalia alle Olimpiadi di Pechino.
“Avevo davanti tutta la vita, e tutta la mia vita sarebbe stata piena e meravigliosa. Ero una campionessa e avevo tutto il tempo del mondo per dimostrarlo. Ero una stella cometa in un tessuto trapuntato di astri luminosissimi.”
A Pechino, è incredula – fianco a fianco degli atleti che ha sempre amato – è tra di loro, è tra i migliori del mondo. Lei che non ha mai avuto un allenatore professionista, e non ha un completo ufficiale. Davanti al mondo intero e a milioni di telespettatori, correrà con il completo che ha sempre usato sulle strade di Mogadiscio, la maglietta che ancora profuma del sapone alla cenere di sua madre e in testa la fascia bianca di spugna che le ha regalato anni prima il padre. Arriverà ultima, in quella gara, ma gli spettatori sugli spalti saranno tutti per lei e ritmeranno con il battito delle mani il suo arrivo al traguardo.
Il ritorno a Mogadiscio, dopo le luci di Pechino, è ancora più duro. La guerra civile stringe la popolazione in una morsa violentissima e con l’aiuto di una giovane giornalista americana Samia, che non avrebbe mai voluto abbandonare il suo paese e la sua famiglia, si decide a partire. Arriverà in Etiopia, per essere seguita da un allenatore professionista ma quello che pensava fosse un nuovo e più luminoso inizio si rivela solo la prima tragica tappa di un calvario. In Etiopia non può allenarsi insieme agli altri atleti della squadra olimpica, i documenti che devono arrivare dalla Somalia, necessari alla federazione per metterla in regola, non arriveranno mai. Samia scalcia, vuole correre, deve fare esplodere ancora la potenza delle sue gambe, e invece si trova costretta a rimanere chiusa in un appartamento che condivide con altre donne somale, clandestine come lei. L’unico modo per allenarsi, ancora una volta, è farlo di notte, quando tutti gli altri atleti hanno già lasciato lo stadio. Al buio, per non farsi vedere, da sola, contro tutti. Per non avere paura.
Così, inizia a prendere corpo in lei l’idea del Viaggio. Hodan, l’amatissima sorella maggiore, ci era passata qualche anno prima e ora viveva in Finlandia.
“Il Viaggio è una cosa che tutti noi abbiamo in testa fin da quando siamo nati. Ognuno ha amici e parenti che l’hanno fatto, oppure che a loro volta conoscono qualcuno che l’ha fatto. È come una creatura mitologica che può portare alla salvezza o alla morte con la stessa facilità. Nessuno sa quanto può durare. Se si è fortunati due mesi. Se si è sfortunati anche un anno, o due. E fin da quando siamo bambini il Viaggio è uno degli argomenti preferiti di conversazione. Tutti hanno racconti di parenti giunti a destinazione in Italia, Germania, Svezia o Inghilterra. Colonne di tir con uomini cotti dal sole e morti dentro il forno del Sahara. Trafficanti di esseri umani e terribili prigioni libiche. E poi i numeri dei viaggiatori che muoiono nel tratto più difficile, la traversata del Mediterraneo, dalla Libia all’Italia.”
Ad Addis Abeba tutti sanno chi può organizzare il Viaggio. Samia, non ha scelta, contatta uno di questi uomini, trafficanti di esseri umani. Bisogna solo pagare, pagare caro. In un garage alla periferia della città, con altre settantadue persone, inizia il suo esodo, la spoliazione dagli affetti e da tutti gli oggetti cari della propria vita, il calvario degli invisibili. Settantadue esseri umani – donne, bambini e anziani – stipati nel cassone di una Land Rover.
“Lì, per la prima volta, siamo stati chiamati “animali”. Quando entri nel deserto smetti di essere un uomo. Ero già stata tahrib ad Addis Abeba, ma adesso ero una tahrib bisognosa di rifugio. Una clandestina fragilissima. Un animale legato alla vita da un filo sempre più sottile. Ti prendono a bastonate. Se non hai i soldi: ti prendono a bastonate.”
Da Addis Abeba, passando per Kartoum, attraversando il forno del deserto sahariano, rischiando più volte la morte e la pazzia per soffocamento, per mancanza di cibo e acqua e cure – vittima del ricatto dei trafficanti, rinchiusa per mesi in diverse carceri in attesa solo che la sorella le inviasse altri soldi per potere continuare il Viaggio, Samia lotta contro la violenza più cupa che gli uomini possano infliggere ad altri esseri umani: la privazione della dignità, del senso dell’umanità e, infine, della vita.
Samia vince la gara del deserto e – dopo cinque mesi dalla sua partenza da Addis Abeba – riesce ad arrivare a Tripoli. Ora la aspetta l’ultimo tratto verso la salvezza. Tra lei e il sogno di essere finalmente seguita da un allenatore professionista per arrivare pronta alle Olimpiadi di Londra del 2012, rimane solo un tratto di mare. Il mare che lei così tanto ama e al quale non si è mai potuta avvicinare. La guerriera bambina che aveva imparato a volare, la più veloce del suo paese, l’astro nascente dell’atletica internazionale perderà la vita il 2 aprile 2012, mentre a nuoto cerca di raggiungere le funi lanciate da un’imbarcazione italiana a poche centinaia di metri dal barcone sul quale aveva affrontato la traversata.
Giuseppe Catozzella riesce nella prova più difficile, ci restituisce intatti – potentissimi e folgoranti – la delicatezza, il coraggio e la forza dell’universo di Samia. La scrittura assurge a estremo monito civile, un urlo persistente di dolore. Perché nessuno possa più voltarsi dall’altra parte, fingere di non sapere, fingere di non vedere. La meraviglia di questo testo è quella di inchiodare il lettore, parola dopo parola, alla propria coscienza. Le sue parole portano la voce di Samia nel profondo, sono scuri che si abbattono su un senso di colpa violento per quanto inutile se non supportato da azioni e scelte, su una corresponsabilità in questa tragedia – che è la storia luttuosa del Mediterraneo, replicata di giorno in giorno, di ora in ora al prezzo di migliaia di vite innocenti – che come esseri umani e cittadini è al massimo grado delittuoso e feroce continuare a ignorare. È la nostra storia, la nostra responsabilità.
Abbiamo fatto qualche domanda all’autore.
In “Non dirmi che hai paura” riesce a riportare – con straordinaria delicatezza e coraggio – la verità della voce di Samia Yusuf Omar. Come è riuscito ad avvicinarsi con questa profondità alla sua storia? Quale è stato il suo primo contatto con la vita dell’atleta somala e come è riuscito a ricostruire il suo vissuto e le tappe della sua odissea?
“Trovare la voce” di Samia è stata in assoluto la cosa più difficile della stesura di questo libro. Mi ci sono voluti mesi di prove e tentativi. All’inizio credevo di dover scrivere un romanzo in terza persona, ma presto mi sono accorto che non era abbastanza forte. Allora ho provato con una prima persona coincidente con l’autore, una sorta di auto-fiction in cui raccontavo in che modo mi ero imbattuto nella storia di Samia e tutto quello che avevo fatto per indagarla, studiarla, approfondirla: di nuovo, non era abbastanza dirompente, questa forma non rispecchiava l’urgenza tremenda di questa storia. Non restava che raccontarla con la sua voce. Prova terribile. Io sono l’opposto di lei: uomo, bianco, europeo, non-musulmano, non-atleta. Ho pensato di mollare, l’ho pensato varie volte. Poi è successo una specie di miracolo, e non so spiegare come sia accaduto. So di certo che le giornate trascorse con sua sorella Hodan e tutte le chiacchierate con molti ragazzi e ragazze africani che hanno fatto a loro volta il Viaggio mi ha molto aiutato a trovare “la voce di Samia”. Per la ricostruzione fedele della sua storia sono state fondamentali almeno quattro tappe. L’aiuto iniziale di Igiaba Scego, che aveva portato per prima la storia di Samia qui in Italia. Igiaba mi ha aiutato tantissimo, senza di lei questo libro non esisterebbe. Poi Teresa Krug, giornalista di Al-Jazeera e amica di Samia: le chiacchierate con lei sono state illuminanti. Le giornate trascorse con Hodan, grazie alla mediazione di Zahra Omar – molto più che una interprete e traduttrice, ma una spalancatrice di mondi – sono state essenziali. Senza Hodan non avrei mai potuto ricostruire nel dettaglio la vita di Samia. E poi un vero e proprio colpo di fortuna: a Milano – ho incontrato moltissimi ragazzi e ragazze, come dicevo, che hanno fatto il Viaggio, per farmi raccontare da ognuno di loro cosa si prova – ho incontrato per caso una ragazza etiope che aveva vissuto con Samia per circa trenta giorni nello stesso appartamento a Tripoli: anche lei mi ha aiutato.
La storia del calvario di Samia è tragicamente vicina a quella di migliaia di innocenti che scelgono di intraprendere il Viaggio. Cittadini che fuggono la violenza di regimi dittatoriali sanguinari, il giogo dei fondamentalismi, la devastazione dei conflitti civili e le conseguenze che ne seguono: siriani, somali, etiopi, sudanesi, afgani, cittadini delle regioni del Nord Africa, tra gli altri. Il Mediterraneo, che unisce con vincolo indissolubile la storia dell’Europa a quella dell’Africa e del Medio Oriente si è trasformato negli anni in una tomba a cielo aperto. Eppure in Europa sembra rinsaldarsi sempre di più l’idea di “fortezza” e il momento per considerare visioni alternative basate sui diritti dei migranti e dei rifugiati richiedenti asilo sembra non arrivare mai. Qual è la sua visione a riguardo?
E’ uno dei temi più complessi dei nostri tempi, secondo me. Non è facile per niente. Il tutto è aggravato dalla crisi economica che investe il mondo occidentale che si è retto finora su un modello economico capitalistico. Le migrazioni non si possono fermare, questo deve essere chiaro. E accogliere persone costrette a lasciare la loro casa e le loro famiglie a causa di tremende guerre, saccheggi, devastazioni, fondamentalismi, privazioni di libertà a me sembra un imperativo morale. Mi rendo conto che l’Italia è nella posizione più complicata, perché prima porta verso la liberazione. Servirebbe una concertazione europea che si facesse carico della questione. Ma pare sia molto lontana dal realizzarsi. I Paesi si chiudono sempre più a riccio sulle loro private crisi economiche e la risposta è quella della “fortezza”, appunto: risolviamoci i problemi da soli e lasciamo fuori gli impicci. Certo è che non possiamo continuare a far morire quotidianamente persone nel mare. È una questione molto molto complessa.
I Cie, i Centri di identificazione ed espulsione in Italia si trasformano, in molte occasioni, in spazi di vuoto giuridico e sociale in cui convergono i destini di persone “colpevoli” di non avere un documento valido, vittime di un sistema che tende a criminalizzare invece che ad accogliere e tutelare i migranti. Ha mai avuto occasione di visitare uno di questi centri? Ritiene che possano essere uno strumento efficace o di qualche funzionalità per operare con modalità costruttive sulla questione e sulla gestione dei flussi migratori in Europa?
In Italia non ne ho mai visitato uno (è vietato anche soltanto avvicinarsi, per giornalisti e scrittori), ma in Svezia sì. Due anni fa ho fatto un reportage per la stampa italiana sui Cie svedesi. Sono andato a vedere con i miei occhi come può essere un modello di accoglienza. E sono rimasto stupito dall’efficienza e dal clima e dalla gentilezza degli operatori che si respirava là dentro. No, non credo che i nostri Cie, così come sono concepiti oggi, possano essere uno strumento che vada in qualsivoglia direzione che porti a un sollievo, a una integrazione. Mi sembrano – ed è certamente per questo che ne è vietato l’accesso – la perfetta rappresentazione del modo cieco e ridicolo con cui si fronteggiano i problemi e le emergenze in Italia. Sono lì a ricordarci che è ancora molto lunga la strada per diventare un Paese perfettamente civile. Come a dire: non pretendete, voi che arrivate, troppo da un Paese che non è in grado di badare a se stesso.