Roberto Boninsegna, Mantova, 13 novembre 1943: settanta anni fa. Un’Italia nelle macerie. L’armistizio da due mesi e la nazione spaccata tra repubblichini, governo fantoccio, tedeschi in fuga e forze di liberazione nazionale. Non più le fragranze di D’Annunzio a Gardone, non più le note di un concerto sulla Nave Puglia, ben custodita al Vittoriale; non più Luisa Bàccara a dettare i tempi alle “clarisse”; non più frammenti d’estasi per l’Orbo Veggente ma l’agguato quotidiano del tempo dissolto e d’un “Poema Paradisiaco” ormai lontano secoli. E comunque, in tale monumentalità silente, qualcuno forse ammirava le prime scorribande liriche, in bicicletta, di Piero Chiara tra Luino e l’orlo del lago di Garda.
Roberto Boninsegna dovette sentirli i fragori della guerra, non ancora “gli ultimi fuochi”, ma bombe e contraeree senz’altro. Rimane sempre un pulviscolo magico, come ricordo, come sedimento, nella mente d’un cucciolo. Un’alta Italia in fiamme con città fantasma e strade deserte, cecchini appostati nei piani alti e autoblindo ad avanzare nell’atmosfera tragica della resa dei conti. E comunque, sempre, tutt’intorno, ipotesi di vittorie all’ultimo minuto, al 90° della seconda guerra mondiale, nella “zona Cesarini” della Storia. E nella Mantova d’un Boninsegna bimbo, “La camera degli Sposi” del Mantegna, i giochi decorativi e prospettici di Giulio Romano a rischio come tutta la storia dell’arte. Già arrivato il freddo in Lombardia, accanto al gelo della guerra. Un’umanità fuggente, sfuggente, nascosta nei ricoveri o negli edifici ancora eretti. Un miracolo vederli ancora in piedi. Un’umanità in cappottoni, maglioni d’ordinanza familiare, già da definire “d’una volta”, e poi scarpe rimediate chissà dove, larghe, morsicate, scoperchiate. Giubbe usate come cappotti, bottoni mancanti, alloro e gladio da qualche parte. E vi era anche chi, coraggioso, filmava tutti questi scenari. Lui, il bimbo Boninsegna, nascosto e protetto come tanti altri bimbi-fuoriclasse: Rivera, De Sisti e Juliano, tutti nati nel 1943. E anche Emiliano Mascetti. E poi un centrocampo-bimbo, del futuro, ignoto a se stesso ma presente: Giovanni Lodetti e Sandro Mazzola, entrambi nati nel 1942. Erano sbocciati alla vita, ma distanti l’uno dall’altro. E per essere completa, la ricognizione dovrà allora annoverare Angelo Domenghini nato nel 1941 e Gigi Riva nel 1944. Ecco chi sorse al mondo, tra gli altri futuri e più o meno famosi calciatori, durante l’orrendo scenario della guerra. Sette di questi bimbi – escluso Giovanni Lodetti ed Emiliano Mascetti – si ritroveranno allo stadio Azteca, in maglia azzurra, nella finale mondiale del 1970. Una ricognizione sui luoghi di Roberto Boninsegna sarebbe un evento sublime; sarebbe come avvistare gli scorci umani di Virgilio Fossati (1890-1916), centrosostegno dell’Ambrosiana Inter, caduto nella prima guerra mondiale. In quest’ultimo caso, un’esistenza tutta da riempire con la scrittura in virtù d’una assenza, d’una esilità di notizie. E con il sogno di missive da scovare su bancarelle: epistole dal fronte firmate Virgilio Fossati, centrosostegno dell’Ambrosiana Inter e caduto a Monfalcone.
Nel caso di Roberto Boninsegna, la situazione sarebbe questa: un veder scorrere due filmati, uno in bianco e nero del periodo bellico con tutto lo scenario riferibile al futuro bomber: casa, strada, oratorio, scuola, e poi quello a colori della vita spensierata, di una già acquisita consapevolezza di sé fino ai fasti dell’Azteca con il numero 20 sulle spalle. Roberto Boninsegna, tutto esatto. Fisico, potenza, tecnica, volto. Roberto Boninsegna è stato il centravanti d’un indimenticabile bianco e nero televisivo che faceva planare tutti i nostri sentimenti su un campo di calcio; ed era lo stesso campo che restituiva carezze con tutto quello che esso, assieme ai nostri eroi, sapeva sollevare come fantasie, possibilità, rappresentazioni, sogni.
Vidi per la prima volta Roberto Boninsegna con la maglia del Potenza e questo nelle figurine del nostro scenario emotivo dell’epoca. Uno scenario che ci preparava alle “Vite Parallele” di Plutarco, ai “Ricordi” del Guicciardini, alle “Vite immaginarie” di Marcel Schwob. Ed anche, perché no, alle fantasie biografiche di Borges o alle esattezze ricognitive di Stefan Zweig. Cos’era a risaltare prima di tutto in Roberto Boninsegna? Il volto “ammaccato” – da lanzichenecco? da giovane cavaliere di ventura, il Colleoni, il Gattamelata, il Castracani? da tercios dello Spinola nelle infinite guerre della Spagna imperiale nelle Fiandre? – mi trasmetteva coraggio e, in poche parole, era il primo segno d’una virilità e d’una “cattiveria” che mitizzavo quotidianamente. Naturalmente tutti questi scenari storici li composi proprio allora con le immagine prese in diretta dai libri di storia, dal “circolo enciclopedico” che a casa mi braccava meravigliosamente. Provavo a porre in testa a Boninsegna il copricapo metallico che protegge Bartolomeo Colleoni nella statua equestre che lo illustra e salva. Boninsegna era giovane e “ammaccato” con un volto che attirava anche per quella sua silente richiesta di rispetto; a guardarlo era come se dicesse: “Amico, tu mi conosci e dunque sai come sono fatto…” – e tutte le prosopopee del caso. In seguito ad una espulsione, con proteste non proprio da dialogo platonico da parte del bomber, vennero delle giornate di squalifica. Era il dicembre del ’68 ed egli indossava la maglia del Cagliari. Furono undici i turni di squalifica, con una riduzione in seguito. In quell’occasione io mi schierai tutto dalla sua parte; non poteva essere accaduto che fosse stato lui a comportarsi male, no, non era neppure il caso di parlarne per me. Lo amavamo troppo anche a Roma, all’oratorio. Ricordo il luogo preciso dove seppi di quella severa punizione: largo Gaetano De Sanctis, nel punto in cui adesso sorge un meraviglioso villino a quattro piani, luogo dal cui portone non ho mai visto uscire una persona (una questione metafisico-condominiale con risvolti ermeneutici).
Alla metà degli anni ’60 quel luogo era immerso in un verde brullo, impolverato – un vasto arazzo di cardi e ortica – macchia archeologica ad un centinaio di metri dall’arcaica via Latina e dal Parco della Caffarella, ricolmo quest’ultimo di “dedriti” splendenti, schegge di sublime adagiate nel dimenticatoio del tempo: corniole, ampolle, lucerne, gioielli dunque risalenti all’impero romano. Appresi delle giornate di squalifica – molte – di Roberto Boninsegna proprio in quel punto dove all’epoca c’era un casale in rovina; punto del quartiere che migliorò già nei primi anni ’70 con l’edificazione, appunto, di quel villino dal cui portone io mai vidi uscire una sola persona. (E tale storia dura ancora). Dinanzi a tale portone c’è ancora la fermata dell’autobus 87 che all’epoca, come traiettoria dei capolinea, prevedeva largo Pietro Tacchi Venturi-Piazza della Rotonda, come dire via Latina-Pantheon. Ecco dunque il punto in cui appresi d’un accadimento “tragico” nella vita calcistica del giovane Roberto Boninsegna: largo Gaetano De Sanctis, civico 15. Egli sarebbe diventato il centravanti italiano tra i tre di sempre. Questo naturalmente nelle mie riflessioni. E chi assieme a lui? Uno, Silvio Piola, per ragioni storiche, per ragioni ermeneutiche vale a dire per un’esistenza continuamente da interpretare – libro aperto e mai concluso come significati profondi – e poi di longevità calcistica. Trascinatore sorridente, combattente e sempre con il piede messo e mai tolto nell’agguato d’un tackle. E poi Meazza? Ma fu centravanti Meazza oppure una “mezza punta” suscitatore d’estasi nelle fasi offensive? Si vedano i suoi due gol ad Highbury – 14 novembre 1934 Inghilterra-Italia 3-2 con gli azzurri in dieci per la frattura del quinto metatarso del piede sinistro del centromediano Luisito Monti – e lui solo contro i maestri inglesi che sulla linea difensiva dispiegavano Male-Barker-Hapgood. Chi oltre questi? Sandro Mazzola? Ma appare riduttivo porlo nel ruolo di centravanti (eppure vi giocò) lui che il pallone se lo andava a cercare nella propria linea mediana scoppiettando poi nelle raffiche di uno-contro-uno. E poi: Chinaglia, Graziani, Rossi, Giordano, Altobelli. Tutti primi attori e non certo stracche comparse con Chinaglia trascinatore dell’intera squadra anche se in Nazionale purtroppo no, probabilmente per forze disturbanti tutt’intorno. Quelli citati in seguito apparivano in un calcio già mutato, totale (Graziani), italico-speculativo (Rossi), carioca (Giordano), alla Wittgenstein con compasso, goniometro e spazio millimetrato (Altobelli). Naturalmente anche Giampiero Boniperti e Francesco Totti vanno segnalati dalle loro altezze di fuoriclasse e dalla “ambiguità” del ruolo. Furono centravanti puri oppure potevano “anche” esserlo? E’ importante porre la domanda aprendo, semmai, la discussione.
Giampiero Boniperti negli annuari, come ruolo, viene descritto centravanti. E le 178 reti realizzate parlerebbero proprio a favore d’un ipotesi del genere. Eppure si fa fatica – sembra poco per lui – definirlo “solamente” centravanti. Lo stesso si può dire per Francesco Totti che con 230 reti realizzate non può non essere stato in carriera “anche” un numero 9, pure se la sua maglia è stata sempre il 10. Nel caso di Totti, comunque, va specificato che gli scenari sono diversi e lo stesso si può dire per i protagonisti: primi attori e comprimari. Un particolare va segnalato a proposito di Pietro Anastasi. Non ci siamo dimenticati di lui. Pochi giorni prima dei mondiali del ’70 in Messico, Anastasi è, con ogni probabilità, il centravanti titolare della Nazionale. Dopo il favoloso gol contro la Jugoslavia nella finale europea di Roma, ripetuta, anno 1968, e le preziosità con la maglia della Juventus è lui che dovrà essere al centro dell’attacco. Pochi giorni prima del raduno azzurro accade qualcosa. Uno scherzo d’un amico durante una partita a biliardo e lui, d’improvviso, non è più arruolabile. E’ letteratura? E’ dilatazione d’un resoconto ben più piccolo? Trattasi di prosetta divenuta nell’opinione generale romanzo? Bene, comunque sia andata, accettiamo tutto, anche che da una prosetta da “Un po’ di febbre” di Sandro Penna oppure da una “scorciatoia” di Umberto Saba se ne sia parlato come d’un romanzo di mille pagine.
Pietro Anastasi, siciliano come l’autore di “Horcynus Orca”, Stefano D’Arrigo, non partì per il Messico e titolare divenne Boninsegna. Che, forse, sarebbe andata diversamente in attacco con la coppia Anastasi-Riva, ovvero il duo più distante d’Italia geograficamente parlando? Quanto si sarebbero scombussolati a Gianni Brera i piani emotivo-antropologici dovendosi egli riferire a Leggiuno e Catania parlando dell’attacco italico? Certo, tutt’altra storia per Brera potendo egli commentare le gesta di due “gran lombardi” come Boninsegna e Riva. Ma vediamo con lo zoom Bonimba. Egli opera con la squadra che compone la manovra, che tesse, che avanza anche in due tocchi declamando il contropiede ma non è lui “il” contropiede; non lo può essere per ragioni di corporatura, di solidità, di velocità in spazi, circoscritti, conosciuti; egli non è certo Chinaglia, Anastasi, Graziani, o Giordano ma è, solennemente, Boninsegna. Eppure, a portarsi dietro l’avversario lungo la linea laterale fin quasi al fondo è anch’egli un asso. Azione che riparte dopo il 3 a 3 della Germania: De Sisti-Facchetti-Boninsegna, tre tocchi, con quest’ultimo che si difende su tutta la fascia sinistra dalla marcatura del numero 5 tedesco (Schultz?) e poi crossa in area, un poco all’indietro per l’accorrente Rivera: l’iscrizione del 4 a 3 allo stadio Azteca è praticamente composta. Da non dimenticare come prima del cross per Schnellinger al 90° minuto sia proprio il numero 20 Boninsegna a porsi a contrasto del numero 20 tedesco (Held?) che comporrà la giusta traiettoria per la spaccata da classico di Schnellinger. Era in copertura, ecco, sono serviti anche in quest’occasione coloro che affermano che “a quei tempi non si correva”: un centravanti a contrastare sull’esterno sinistro d’attacco della Germania. Boninsegna è tutto: copre il pallone, sgomita, è irruento, è potente con agguati azzeccati, è fortissimo di testa e in acrobazia. Inoltre possiede una caracca che ha anche la qualità della precisione. E’, insomma, il centravanti potente che ogni squadra vorrebbe avere e non serve a nulla dire che la fuga in contropiede non è nel suo affresco tecnico. Egli serve ad altro, a fare i gol e ad essere svelto e rapace sotto porta. Una domanda si pone a questo punto: chi tra Boninsegna e Riva era più forte di testa? Se Riva, da statua nella Sala delle Divinità, non può essere toccato e ogni parola potrebbe risultare fuori posto, ciò che spicca nei gol di Boninsegna è anche il “sopruso” di testa, il duellare aereo che quasi sempre si risolve a suo favore. Un asso di testa a ragione anche della dote naturale del coraggio: un suo gol contro il Napoli al San Paolo meriterebbe una tesi di laurea per come, con l’azione in sforbiciata di Dino Panzanato, Boninsegna lo anticipa di testa in tuffo evitando per millimetri lo scarpino in fronte nell’azione del rinvio-anticipo dello stopper partenopeo.
Ma v’è dell’altro: una sfida Inter-Torino del 15-11-1970: dopo il primo gol su rigore di Boninsegna vi è sulla linea dell’area di rigore prima della riga di fondo una punizione di Mario Corso per fallo di Poletti su Mazzola (si veda il lancio d’esterno a rientrare di Corso per Mazzola per capire cos’è un fuoriclasse). Ebbene, la punizione. Perfetto il taglio del mancino veneto, imperioso lo stacco di Boninsegna con un frontale potentissimo su una moltitudine di anime imploranti: Luciano Castellini è battuto. E poi ancora la potenza dei tiri da fuori area da posizione centrale (il primo gol contro la Germania all’Azteca) oppure se spostato sul lato sinistro: un gol sempre a Battara; una mia scheggia infossata, recuperata e che risplende dopo essere stata richiamata alla vita. Contro Alberto Ginulfi Boninsegna ha un conto aperto: dopo un gol di testa a San Siro con Helenio Herrera sulla panchina dei giallorossi (Inter-Roma 2-0, 1-2-1970) il bomber “si accanirà” con un rigore molto discusso decrecato dall’arbitro Michelotti al 90° minuto all’Olimpico di Roma (17-12-1972, Roma-Inter 1-2). In quell’occasione, sotto la Curva Sud, Ginulfi sfiorerà, alla sua sinistra, l’angolatissimo tiro di Boninsegna. In gioco acrobatico basterebbe ricordare il citatissimo gol contro il Foggia, (5-0 a San Siro, 2-5-1971) contro il portiere Raffaele Trentini entrato suo malgrado nella Storia proprio a ragione di quell’affresco in sforbiciata di Boninsegna. E tali attitudini allo stacco e al gioco acrobatico gli erano proprie in virtù dell’agilità da una parte e della potenza fisica dall’altra. Compatto, “protettivo” del pallone, basette larghe, chioma fluente con la riga al centro. A proposito di chioma pettinata con riga centrale. Tale sua pettinatura avvenne col tempo, diciamo nella stagione interista e in seguito, perché a Cagliari la riga era come quella di tutti gli altri calciatori, ovvero di lato. L’unico vero, autentico “anticonformista”, nel senso della pettinatura con la riga al centro, fu il primo Ciccio Cordova (1944), quello con la maglia del Brescia, nel 1966. In quell’anno Ciccio Cordova è l’esempio del narcisismo estremo. L’unica frangetta con la riga in mezzo, in serie A (ma forse anche in serie B) è la sua. Una volta passato alla Roma tale estetismo egli lo avrebbe attenuato scoprendo la riga a lato oppure una soave scapigliatura, lui vero scapigliato in tutti i sensi.
Si può affermare, sfogliando la lunga galleria di quei volti, che negli anni ’60 e ’70 la riga nel mezzo della chioma non era sentita, era quasi una “mancanza di rispetto” nei confronti del senso comune. Derogarono da simile regola, ma non sempre, Gianluigi Roveta (1947) della Juventus, Renzo Ragonesi (1943) del Brescia, Nevio Scala (1947) con la maglia dell’Inter. Ma ad osservare bene la loro traiettoria, in quanto a quell’acconciatura, non si trattò mai di una scelta definitiva. Gli “irriducibili” della riga al centro furono Gian Piero Ghio (1944) con la maglia dell’Inter, Mario Tomy (1943) con la maglia della Lazio, Mauro Bellugi (1950) con la maglia dell’Inter soprattutto perché di lì a qualche anno la chiomà si diradò, e Carlo Bresciani (1954) della Fiorentina. In seguito Bruno Giordano (1956) e Andrea Agostinelli (1957) spopoleranno con la riga al centro ma gli scenari e le mode stavano mutando. E comunque, tornando agli anni precedenti, la riga posta su un lato della chioma sembrava possedere un significato preciso, sconfinava con un atteggiamento “morale”: rispetto verso dirigenti e allenatore mentre la riga nel centro della chioma, estremizzata dalla frangetta, era qualcosa di fantasioso, di “estroso”.
In quell’irripetibile campionato 1970-71, Boninsegna, con Gianni Invernizzi allenatore, oltre ad essere campione d’Italia con l’Inter fu anche capocannoniere del campionato con 24 reti. Due rigori in una sola partita: Inter-Sampdoria 3-1 (25-4-1971). In entrambi i casi la porta è quella a sinistra dello schermo; in entrambi i casi il portiere Pietro Battara(1936) è spiazzato; nel primo caso il tiro e basso alla destra del portiere mentre nel secondo penalty l’angolo è cambiato e la traiettoria è alta. Il sole a San Siro in quella domenica, e il portiere dell’Inter Lido Vieri che sul secondo rigore di Boninsegna osserva il penalty stando seduto davanti alla sua porta: immagine tra le più sublimi del calcio italiano. In quella stessa partita il gol della Sampdoria viene realizzato da Suarez, passato dopo i trionfi interisti, con i blucerchiati. E’ un rigore che all’inizio Luisito sbaglia ma che, nella ripetizione, il maestro delle geometrie spedisce nell’angolo opposto a quello dove s’è tuffato Lido Vieri. Boninsegna, dunque, si distingue anche sui calci di rigore: parte, opera una lievissima interruzione durante la corsa ed è proprio in quel segmento di tempo, di “alterazione” della rincorsa che egli opera un movimento con il fianco che provoca lo spiazzamento del portiere. Devo ricordarmi di qualche penalty eseguito di potenza da parte di Boninsegna.
Frugo e frugo, discendo nelle catacombe della memoria, sul pavimento a mosaico paleocristiano del mio ippocampo, ma non riesco a far riemergere un qualcosa del genere. Con tanta potenza che possiede, egli è “gentile” quando tira i rigori, geometrico per come sa cercare il punto estremo dell’angolo basso: magistrale in questo senso il rigore contro Ginulfi all’Olimpico, di cui se fatto cenno nelle righe precedenti. Alberto Ginulfi (1941) sfiora il tiro ma non può deviarlo in calcio d’angolo e la rabbia dello stadio Olimpico esplode non contro Bonimba ma nei confronti dell’arbitro Michelotti. Qualche anno fa, in una cena a Siena, assieme ad Antognoni e Boninsegna in una festa a loro dedicata, fu proprio il grande Bonimba a narrarmi di come il suo passaggio dall’Inter alla Roma era quasi fatto. “Quasi”, appunto, perché la Juventus s’inserì e fu per Boninsegna una fortuna visto che con i bianconeri vinse due scudetti, rispettivamente nel 1977 e nel 1978. Sempre con la Juventus, nel 1977, s’aggiudicò la Coppa Uefa e nel 1979 la Coppa Italia. Che attacco con Bettega! Che duelli con il secondo Grande Torino, quello “olandese” di Gigi Radice. Quali prolungati tremori per le difese l’apprendere che vi erano, in quel reparto offensivo, i due attaccanti più forti di testa. Certo, anche Graziani e Pulici del Torino non che scherzassero nello stacco o in acrobazia ma forse Roberto Bettega andava anche più su di quel grandissimo attaccante che fu Paolino Pulici. Lo ammiravo sorridente e scherzoso e ancora possente, Boninsegna, mentre mi raccontava (mentre mi donava) tante immagini del suo passato. Pur ascoltandolo, me lo rivedevo in diretta nella mia mente, nella finale contro il Brasile con davanti Brito, Piazza e poi Everaldo. E poi il portiere Felix, dalla chioma leggermente dorata, ondulata. Io, nel mio smarrimento, presi a pensare che, trovandomi al posto di Boninsegna, avrei sì concluso a rete, ma poi non mi sarei perso un istante di quella chioma del portiere brasiliano. Questioni di fragilità, di lontananza dal vero, com’è, appunto, un terreno di gioco. Rivedevo quel “rimpallo”, quella incomprensione difensiva dei carioca con Boninsegna ad avventarsi sul pallone – astutamente Riva fermandosi – colpendolo poi con freddezza e precisione. Poi, dopo quel flash meraviglioso, uno stacco, un parallelismo, e così finivo in Spagna nel 1982: qualcosa di simile nella difesa brasiliana, qualcosa di già visto All’Azteca, e nella nuova situazione era un altro centravanti azzurro ad inserirsi in quel “malinteso” della difesa brasiliana – Paolo Rossi – e a battere Valdir Perez. Era il 2 a 1. In quel caso la sfida sarebbe finita a nostro favore e vendicato il 4 a 1 di Messico ‘70.
Boninsegna mi raccontava tanti episodi ed io lo vedevo davanti a Berti Vogts, a Schultz e ad un Beckenbauer fasciato ed eroico. Quale storia s’era composta quella notte! Nella mente italica ben più importante della finale perduta. Eravamo usciti sconfitti con i brasiliani, ma la partita da ricordare s’era affrescata nella semifinale. Via via che il lungo racconto di Boninsegna si dispiegava, mi tornarono in mente sia un suo gol di testa in un derby contro il Milan nella porta a sinistra osservando il video, e poi tante battaglie nei derby con il Torino, tra marcature arcigne da parte del duo Mozzini-Caporale e pressing a tutto campo da parte dei granata versione “orange”. In tre stagioni con la Juventus, Boninsegna vinse un solo derby: Juventus-Torino 1-0 del 25-3-1979 – con Bonimba che segna di testa a porta vuota accompagnando il pallone in rete su un cross dalla fascia sinistra. Mi ricordai in quei frangenti che nell’estate del 1969 l’Inter per acquistare Boninsegna aveva dato al Cagliari, come contropartita, Angelo Domenghini, Sergio Gori e il mediano Cesare Poli più conguaglio. Confesso che in quell’occasione – gli affari all’Hotel Gallia di Milano si seguivano con attenzione e con attesa febbrile anche per noi bambini – mi sembrò eccessiva l’offerta dell’Inter. Ma tutto, probabilmente, era legato al fatto che Domenghini aveva cambiato casacca e a me disturbava vedere frantumato quel mosaico nerazzurro ed intercontinentale. Eppure vinsero subito lo scudetto i tre calciatori provenienti dall’Inter. Bonimba, invece, dovette attendere due anni per il suo primo tricolore.
Buon compleanno Boninsegna, vi sarà sempre un cantuccio nel mio cuore per custodirti. Con te stavo più sicuro soprattutto quando la Nazionale giocava in trasferta, e accolsi con gioia, dopo il disastro in Germania nel mondiale del 1974, che un certo Fulvio Bernardini, commissario tecnico, tra i tanti giovani chiamati per ricostituire l’affresco azzurro, chiamò anche te.