Mentre osservo le scie delle macchine e i fari abbaglianti che corrono su Armenia street in una notte mite di metà ottobre – il rimbombo dei clacson, lo stridio bruciato delle frenate all’ultimo, le inchiodate di un traffico scomposto, opprimente – sento sfiorarmi la mano. Intorno a me ci sono persone, si chiacchiera e si balla, su questo scampolo di marciapiedi nel cuore di Mar Mikhael. Si beve, sul confine dell’antico quartiere armeno di Beirut. Siamo a est. Quartieri cristiani. C’è musica in ogni locale che abbia porte sulla strada. Non mi volto subito, quasi non me ne accorgo. Poi la stretta si fa più insistente. Una mano piccola è nella mia. Una mano che non chiede. La sua testa tonda di capelli neri supera di poco la mia vita e due occhi allungati e rapidissimi mi fissano da quell’altezza. Sono io che devo abbassarmi e per la prima volta ci guardiamo davvero.
«Kifik?» mi chiede, «Ana Mohammed» e si batte il pugno sulla maglietta rossa di superman, logora, e sorride con denti bianchissimi per nulla spaventati. Ricambio e dico il mio nome. Lo ripete due volte, stringe più forte la mano, poi indica con lo sguardo un ragazzo che sta mangiando a pochi passi da noi. Certo, va bene, andiamo a mangiare. Camminiamo per mano, facendoci strada a fatica tra i corpi che affollano il piccolo marciapiedi. È lui a guidarmi. Si ferma davanti a una baracchina, un centinaio di metri più avanti. Per Mohammed il bancone è troppo alto, l’uomo dall’altra parte non può neanche vederlo. Labneh, mi indica. Un panino con formaggio e verdure. Ne ordino due e ci sediamo sulla panchina davanti all’uomo. Chiedo a T., l’amico siriano che è con me, di aiutarmi con l’arabo perché voglio parlare con Mohammed. «È sicuramente siriano», mi dice, «direi del nord, dall’accento». Proviamo a chiedergli da dove viene e quando è arrivato a Beirut. «Aleppo», risponde, e con la mano indica un luogo nel cielo senza stelle di questa notte, in alto. «Vicino», dice, quando cerchiamo di farci dire esattamente da dove, «vicino ad Aleppo». «Può capire anche il turco», mi dice T., «lo parla male ma lo conosce, probabilmente viene dai confini settentrionali, a nord di Aleppo, le zone sul confine turco».
Mentre mangiamo lo stesso panino, le nostre braccia si sfiorano e attorno alla panchina, in un attimo, posso contare almeno altri sei ragazzini. Quando si fanno troppo vicini urla qualcosa, Mohammed, li fa allontanare, si agita, non vuole che ad altri venga data l’attenzione che sta ricevendo lui. Sono tanti, tantissimi, i bambini siriani dispersi a Beirut e – nonostante gli sforzi delle Ong internazionali e locali che operano sul territorio – troppo pochi quelli riescono ad accedere anche solo a una minima formazione scolastica. Quattro, dieci anni, sono soli di notte, a piccoli gruppi. Qualcuno di loro ha rose finte da vendere, altri cercano spiccioli da portare a chi li ha lasciati sui marciapiedi dei posti frequentati del centro: li incontro a Mar Mikhael, come questa sera, o a Gemmayze, fuori dalle porte a vetro dei ristoranti francesi, li vedo sulle strade trafficate di Hamra, a ovest, piene di locali, di stranieri di passaggio, gente che esce a bere, a cenare. Gente che ride, che forse vuole solo dimenticare. A tarda notte giocano con i cartoni vuoti ammassati per strada dai fruttivendoli, a ogni incrocio di via, tra i resti di verdura pesta. Si rincorrono, quando sono stanchi di chiedere, o si siedono a guardare le macchine sfrecciare a mezzo metro da loro. A tutt’oggi in Libano si contano più di 800mila profughi siriani, in costante aumento, per un totale della popolazione libanese di poco più di 4 milioni. Una persona su cinque, attualmente sul territorio libanese, è siriana. La situazione di emergenza umanitaria è assoluta. Ogni giorno vengono registrati dall’ Unhcr 3000 nuovi arrivi. «Naba’a» risponde, quando chiediamo a Mohammed dove dorma. Cintura di Beirut Est, sulla riva orientale del nahar, il fiume, oltre Bourj Hammoud, ai confini di Sin el Fil. I ragazzini gli imprecano contro, poi corrono via ridendo. Mi dice mercì, prima di allontanarsi a sua volta, e mi accarezza la mano guardandomi. Da quella sera, quando rientro verso casa a piedi dopo una giornata di lavoro, Mohammed è sempre ad aspettarmi davanti al locale in cui ci siamo incontrati la prima volta. Mi abbraccia e ce ne andiamo a cena insieme. Ha otto anni, e cicatrici sempre nuove. Una notte rientrando non lo incontro, lo cerco in giro, guardo se è in strada, fuori da qualche bar, poi vedo Ali, il bambino che è sempre con lui. Ci dice che non l’ha visto, che non lo sa, che forse era stanco e se ne è andato via. Poi scappa.
Le due di notte e io sono ancora in strada a parlare con alcuni amici, stiamo salutando uno di noi che se ne va. Tra qualche ora arriverà una macchina per riportarlo in Siria. Aspettiamo l’autista qui, insieme, seduti sul marciapiedi a chiacchierare.Sento due mani attorno al mio polso e vedo un braccialetto fatto con un pezzo di cerniera da maglia. C’è un ciondolo appeso, di metallo scolorito, un cane che salta. Mohammed mi chiede se mi piace, dice che per lui è troppo grande e quindi posso tenerlo io ma quando cerco di abbracciarlo si scansa con una smorfia di dolore, si tocca la schiena. Gli chiedo cosa è successo, perché è ancora in giro a quell’ora, ma non vuole rispondere, dice solo «sono state delle persone -. Poi mi prende da parte, non vuole che gli altri vedano, non gli va di parlare, non vuole sentire storie. Si gira e si alza la maglietta, ci sono segni ovunque sulla schiena, strisce scure di lividi. «Per prendermi i soldi» non dice altro, solo «a domani». Non mi guarda mentre va via. Non può vedere il dolore e la rabbia che provo. Ora sappiamo contare fino a venti in inglese, seduti sulla stessa panchina, abbiamo imparato i numeri. «Fino a dieci li so già», mi ha detto la notte successiva a quella del suo regalo «non serve che me li insegni». Quando arriviamo a 20 battiamo due volte le mani insieme e ridiamo. Mohammed è molto più bravo di me. Vuole arrivare a cento.
Fotografie di Maria Camilla Brunetti