A Ponte Casilino non vi sono più le viole. Tra i binari, un tempo, esse formavano ricami di natura infischiandosene dei treni diretti o accelerati. Rimanevano lì immolandosi ad una Tecnica non ancora feroce. Le viole crescevano lungo i bordi della ferrovia, ma anche a ridosso dei binari e delle traversine, ecco, accadeva di questo in quel periodo ormai di glaciazione riferibile agli anni ’60. A breve distanza da Ponte Casilino – notevolissimo belvedere su treni in transito e su decorazioni di natura – abitava il poeta Elio Fiore, precisamente in via Casilina Vecchia 6. Era tutto in accordo: viole e cognome di poeta. Ed Elio Fiore che scriveva versi anche guardando passare treni; li scriveva in sé, come emozioni. Egli s’avvistava sul Ponte Casilino come un ingombro lirico, a ragione della sua mole. Cosa avrebbe avuto egli in comune, ad esempio, con i crepuscolari? Che, forse, avrebbe potuto farne parte vista la mole? Uomo religioso e di preghiera, non si ripiegava su di sé ma dava acqua alla speranza. Lontanissimo dunque dai crepuscolari, egli amava le date, le ricorrenze e le dolci congiunzioni storiche. Ma si torni alle viole e alla loro scomparsa dai binari.
Alle traversine di legno subentrarono quelle di cemento, impresse nel centro con un sigillo d’una introvabile ditta, e fissate con bulloni stile Fernand Léger nelle sue “macchinazioni”. Un evento sarebbe trovare il luogo di quella ditta il cui sigillo sta inciso nel cemento delle traversine. Salire addirittura su un treno quando s’è appurato qualcosa e dirigersi fino al cancello di quel cementificio: conoscere gli operai e poi domandare loro se a Natale il panettone in dono si mantiene ancora come usanza. Elio Fiore non immaginava, in quei giorni del 1963, che le viole sotto Ponte Casilino sarebbero scomparse; se avesse immaginato tanto, forse un suo “Carme presunto” – minore finché si vuole ma comunque “Carme” – l’avrebbe composto. E magari per titolo avrebbe scelto: “Le viole violate”. Elio Fiore era un poeta che parlava per lo più di pace e che possedeva una bontà spontanea immediatamente avvistabile; egli s’accomodava su un nodo storico o su una abitazione di scrittore per poi spiccare il volo nei versi che da subito gli davano residenza proprio in quei “luoghi” evocati. E così di colpo egli era a Parigi accanto a Simone Weil, in 3 Rue Auguste Comte; o a Ungaretti, in 5 Rue Des Carmes. “La strada era deserta,/ed io, come un ladro/ho suonato il campanello/di Simone. L’attesa è stata/ lunga,/ poi d’improvviso/ è apparsa con il suo mantello/ blu e mi ha guidato/ al bar Le Rostand (…)”. E nella seconda poesia: “L’appassito vicolo in discesa,/ è oggi vivo di negozi./ Rivedo Ungaretti giovane/ sillabare,/ i suoi versi,/ mentre porta dei sigari/ ad Apollinaire morente./ Rivivo un secolo di poesia./ Rivedo Dante in Saint Severin”.
Ma questo sarebbe avvenuto negli anni. Al tempo meraviglioso dei primi anni ’60, egli, giunto su Ponte Casilino, non sempre si voltava sui binari avendo affollamento d’immagini nella mente e come delle Gallerie d’un cardinale del ‘700 zeppe di quadri. E comunque, le sue attraversate per il Pigneto dovevano pur prevedere uno sguardo ai binari della ferrovia, se non altro perché verso una ferrovia ci si volta per consuetudine, scorgendo un impossibile amore in uno scompartimento in fuga. E si conosce bene una simile smagliatura dell’animo. Dunque, nel mentre riceveva una cartolina dal poeta Camillo Sbarbaro, giusto cinquanta anni fa, Elio Fiore la donava la sua “affacciata” sulla vita dalla lunga grata di Ponte Casilino. «Caro Elio, ho visto annunciate le tue poesie. Auguri a esse e a te. Affezionatissimo Sbarbaro». (cartolina illustrata di Spotorno del 31-12-63 indirizzata a Elio Fiore via Casilina Vecchia 6, Roma). Ecco, l’affacciata sulla vita e poi, superando il ponte e imboccando via Casilina, parallela a via Casilina Vecchia dove lui abitava, di sicuro s’avvicinava ai binari in quel punto di fronte alla chiesa di Sant’Elena. Ecco, da quel luogo con pensilina, egli aveva due opzioni per il sublime: volgersi verso le viole nate accanto a binari e traversine lignee e poi, da lì, imboccare il Pigneto da via Fivizzano, di lato alla chiesa. Imboccato il Pigneto da quella strada, oppure da via Grosseto, se lo sarebbe gustato tutto lo “schiamazzo” lieve d’una umanità pura ed impaurita, insicura su tutto ma accogliente per vocazione. Il passo pesante del poeta, la sua carnagione egizia – d’un impiegato al tempo di Nasser – quella sua chioma fitta, liscia, mandata all’indietro con qualche lieve manata – o velo – di Brilcream, ecco, la sua mole avrebbe destato curiosità a tutti e non pochi l’avrebbero additato: «Ecco il poeta!», ma non come un individuo cui tessere burle.
E che Trilussa quando, verso la fine della vita, giocava a carte all’osteria in piazza Sonnino, a Trastevere, sollevava forse ilarità? Dunque Elio Fiore, dopo aver osservato e accarezzato con gli occhi le viole nate accanto ai binari, ecco, con una tale ossigenazione nell’animo s’inoltrava per il Pigneto e tra un basso di stagnaro o di mignotta, qualche edificio umbertino in miniatura – via Perugia, piazzale Prenestino – ecco che si ristorava nel chiasso feriale senza che s’osasse intorno dizione o si parlasse in una lingua tradotta. Nulla di tutto questo ma quelle screpolature (o sublimi cadute) assai efficaci nel linguaggio. Il caffè lo pigliava in un bar a piazzale Prenestino, ma più per rispettare un rituale che per l’esigenza vera d’un “ristretto”. Era, con l’animo, da tutt’altra parte; e lo si vedeva nitidamente se nell’atto di coinvolgere lo zucchero nella scena del caffè, della tazzina e della mano, egli guardava d’improvviso in alto, verso un soffitto che non bastava e che per la mente rappresentava soltanto la “sala d’aspetto” in attesa d’un oltre al primo piano, camera da pranzo o cucina, chissà. Quanti giorni così vi furono!… Era, dallo sguardo, come se stesse immaginando ambienti a Versailles, a Praga o nelle Sacre Stanze. Questione di pochi istanti, bastevoli comunque per planare in quell’altrove che donava ristoro e puntello. Poi tornava alla zuccheriera, al girare il cucchiaino ma sembrava impaurito – bambino fattosi adulto e proprio per questo preoccupato – e salvo soltanto in ciò che aveva immaginato istanti prima.
Osservando un operaio che si stringeva nei suoi umili panni dopo essersi puntellato l’animo con un cognac, un giorno Elio Fiore imitò quell’azione del rintanarsi in sé e avvertì quell’operaio come fratello; ne studiò il viso: la chioma rada, uno smottamento alla muscolatura degli zigomi che, in quell’azione a valle, s’era portato dietro anche le palpebre; gli occhi un poco in fuori, liquidi, arrossati alla sclera e poi le pieghe al collo, come corde allentate d’una funivia; quindi l’abbigliamento: il maglione largo, d’una lana blu, impolverata e spessa, dove s’innalzava un gran rammendo; i pantaloni di velluto a coste larghe, consumate in più punti, e infine delle scarpe “saltafosso” non si sa bene se meglio d’un personaggio di Mark Twain, oppure d’un operaio del nostro realismo dal vivo. Si gustò quell’operaio e d’esso penetrò l’ombra ed il mistero. Poi quella figura consumata uscì accendendosi una Nazionale senza filtro. Fuori, un Pigneto sgombro di macchine e intenso nelle distanze. Un Pigneto non ancora aggredito dalla tangenziale. Un Pigneto preistorico, fatto di case, casette, gocciolii, ballatoi con crepe alle travi conficcate oblique nel muro. E poi cortili inauditi, con pareti ricamate di muschio e piccole finestrelle di cesso, in alto, in basso, ovunque in quella corte custodita. Grate in cui la ruggine rappresentava l’esatto accumulo di tempo e il vano opporsi ad esso dell’uomo. Certo il ferro originario era un ricordo e adesso quelle grate erano come il volto rugoso d’un vecchio, d’un operaio leso di corpo e d’animo. Una bicicletta adagiata sul muro, una piccola catasta di legna, dei panni stesi che, sebbene custoditi in quel cortile, sarebbero stati comunque raggiunti dal sole. Magari di sguincio nella tarda mattinata. E il sole che, addirittura, avrebbe desiderato prendere residenza lì.
Uno specchietto per farsi la barba stava adagiato sul ripiano esterno d’una finestrella assieme ad un pennello a setole all’insù, ancora umide, e quindi uno stick Palmolive di sapone verde, dalla forma cilindrica e protetto da un velo di carta argentata. Un oste era poco fuori tale cortile ma faceva parte della stessa luminosità, d’una lunga penombra familiare. Un oste della vicina osteria in via del Pigneto, poco prima di via L’Aquila. Un oste con le caviglie gonfie e il tovagliolo sulla spalla. E così Trastevere sembrava avere una dependance al Pigneto. Un oste del quale già allora si sarebbero dovute prendere le generalità perché si sapeva che tutto – esistenze, oggetti e comportamenti – si sarebbero dissolti a favore di altro. Si fu superficiali nel non catalogare ogni cosa, nel non fotografare archi, casette, cessi arrampicati e ballatoi. Già ad avvistare quella ruggine su grate e battenti, il cuore si sarebbe istruito malamente, sfalsato nel battito perché l’evento nuovo – la ruggine come momento di dolore – dava la vertigine a quella gente. E gli eventi nuovi, negativi, accadevano sempre nelle screpolature della periferia e mai che avvenissero nei quartieri pettinati dove le asimmetrie erano minime e le scoliosi nel paesaggio inesistenti. In poche parole, anche il più lieve “sisma” aveva paura d’annunciarsi nei feudi della ricchezza. Un Pigneto come fase esplorativa del mondo per un poeta vagante con moderazione, non proprio un affezionato del vagabondaggio.
Elio Fiore scriveva a Sbarbaro e riceveva biglietti sempre più esili, dei “trucioli” di scrittura, composti “pianissimo” da Spotorno. In quelle cartoline v’era anche l’azione materiale del poeta ligure: essere uscito di casa, sguardo alla sorella Clelia, e poi l’aver comperato da un tabaccaio la cartolina illustrata, il francobollo e poi, una volta a casa, la fatica d’un velo di saliva per porre quella piccola stampa dentellata nel riquadro giusto. Che fatica per il poeta di “Liquidazione” comporre l’indirizzo. Le palpebre gonfie, quei torrentelli di capillari a minacciare un epitelio sfiancato, alla deriva, e come contenente un liquido. Quale distruzione di identità! Quale dissolvimento! La resa, del resto appresa in anticipo dal fanciullo Sbarbaro, sin da quando v’era ancora il vecchio padre ed anche negli attimi in cui stava in posa con la sorella Clelia e la zia Benedetta. E perché, l’imbucare la cartolina sarebbe risultata azione lieve? Sfiancante a dirla tutta ma, del resto, egli aveva deciso d’uscire come per saggiare le residue forze. Il tabaccaio e il mare che non prometteva nulla di buono. E l’acquisto, addirittura, d’un paio di sigari toscani, ma soltanto per sfiorali nel tepore di casa, di poggiarli sulle labbra tremolanti. Poi il rincasare in una Spotorno alterata e non più disperatamente solitaria e notturna. Una vittoria quell’essere giunto a casa “sano e salvo”. Una vittoria che faceva sorridere e piangere ad un tempo; era un attimo di gioia e subito dopo il ripristino d’un pensiero – l’agonia finale – che si dispiegava nuovamente. Che cosa più di Sbarbaro fanciullo accanto alla sorellina nella fotografia di Giuseppe Fazzi del 1898? E in tutto questo, accanto a questa vicenda esistenziale mandata a memoria, Elio Fiore, il quale si divideva tra il Pontificio Istituto Biblico dove lavorava a tempo parziale in qualità di bibliotecario, e le perlustrazioni in quella Roma del Portico d’Ottavia – al Ghetto – luogo che diverrà decisivo per il suo canto ininterrotto sul male, sulle stelle e la pace, quest’ultime due realtà come unico antidoto contro la barbarie umana. Stelle, Natale, Presepe, Abbraccio Cosmico, ecco, pare possano definirsi così le quattro stazioni della passione “minima”, umana di Elio Fiore: “Chiudo gli occhi,/ congiungo le mani./ Credo nello Spirito Santo, perché l’ho visto/ il mattino del 10 maggio ‘60/ nel Duomo di Milano,/ dopo un’orrenda visione (…)”.
E comunque, malgrado tali attitudini e impegni, egli tornava sempre in via Casilina Vecchia 6, ad un passo dal Pigneto. Forse durò lì fino allo sfinire degli anni ’60. Poi egli si narrò altrove e, da ultimo, verso il Gianicolense, in un abitato troppo intasato di gente per la quiete d’un poeta. E pare, a questo punto, un luogo intenso quel frammento di vita in via Casilina Vecchia 6. Da questo suo nido, il Pigneto poteva a quel tempo rappresentare anche un “oltre” pauroso. Lui, prima di Ponte Casilino, stava ancora nel tepore d’un tufo illustre e romano e d’un verde diffuso, a ciuffi, che giungeva fino ai villini a Piazza Lodi. Via Casilina Vecchia sembrava distaccarsi lentamente dal Pigneto e preparava allo sguardo di un’architettura elegante, di benessere, con villini che si sarebbero potuti tranquillamente avvistare in via Nibby, in via Guattani, sulla via Nomentana. E Ford Consul e Volkswagen parcheggiate dinanzi ai cancelli; e Fiat 1500 come grande indizio d’un salotto per amanti. E se al Pigneto l’edilizia poteva dirsi soavemente “stentata”, rimediata – naturalmente con dei ritagli meravigliosi, quali ad esempio certi archi che aprivano su corti silenti, custodite, patriarcali e tardo papaline – ecco che in via Casilina Vecchia, oltre la ferrovia, provenendo dal Pigneto, casette già azzimate, decorate, pur con materiali non eccellentissimi, rappresentavano un po’ la “sala d’aspetto” per quanto si sarebbe ammirato a Villa Fiorelli, poco dopo Piazza Lodi e sulla sinistra – via Oristano, via Crotone, via Melfi – con quei villini in cui rampicanti e verde pettinato sembravano tener distante scocciatori, aggressioni e malanni. Ma di tutto questo la poesia di Elio Fiore non s’accorse e infatti le sue architetture furono quelle celesti.