“Il futuro del giornalismo? L’informazione di lunga durata” – Intervista a Patrick de Saint Exupéry, direttore editoriale di XXI e 6mois

di Maria Camilla Brunetti e Angelo Mastrandrea

Un trimestrale di reportage che stabilmente supera l’asticella delle 50 mila copie vendute in libreria è il sogno di qualsiasi editore. In Francia XXI c’è riuscito, grazie a una certa dimestichezza dei lettori d’Oltralpe con le riviste, ma soprattutto per via di una scelta radicale: basta con  l’informazione “fast” e via libera a un modello di informazione basato sulla profondità piuttosto che sulla rapidità, sull’originalità delle storie anziché sulla ripetitività. Per descrivere XXI è servito un neologismo: «mook», che è la contrazione di magazine e book. Insomma, una rivista che si fa libro, o viceversa. Da riporre in libreria e conservare accanto ai classici. In Francia XXI – e il suo fratello 6mois, semestrale che recupera il solo apparentemente superato  fotogiornalismo – è un vero e proprio fenomeno editoriale in un mercato in piena crisi, al punto che i fondatori Patrick de Saint Exupéry e Laurent Beccaria si sono permessi di sfidare i grandi quotidiani, pubblicando un “manifesto dello slow journalism”, che ha fatto inarcare non poche sopracciglia nelle redazioni dei quotidiani parigini. Come a dire: come può un neonato trimestrale avere la sfrontatezza di dare lezioni a testate storiche? Il successo editoriale di XXI ha scosso talmente in profondità il mercato editoriale francese che altri hanno provato a seguirne la scia. Sono così nati altri “mook” come “Feuilleton” – e da questo il semestrale di cultura sportivo-letteraria “Desports” – e, da ultimo, “Longcours”. Discutiamo con il direttore di XXI Patrick de Saint Exupéry una mattina di pioggia in un albergo di Ferrara, dove il giorno prima – insieme al suo socio Laurent Beccaria – ha incontrato il pubblico del festival di Internazionale. Davanti a un buon caffè caldo.

XXI-n18Saint Exupéry, lei ha abbandonato il quotidiano Le Figaro, e il mestiere di inviato che le ha permesso di raccontare il genocidio ruandese e altre guerre, per fondare XXI. Come mai? I quotidiani sono ancora in grado di raccontare il mondo?

Io, come giornalista, e Laurent Beccaria, per ciò che lo riguarda in quanto editore, avevamo iniziato a constatare la debolezza di un modo, sempre più diffuso, di fare e di pensare il giornalismo. Per quanto mi riguarda, non mi ritrovavo più in certe dinamiche di lavoro. Così ho cominciato a incontrare sempre più spesso Laurent, ci vedevamo regolarmente, e il progetto di XXI è nato dalla fusione delle nostre sensibilità. Alla base della nascita della rivista c’era il desiderio di unire il migliore giornalismo alla migliore editoria. Qual era il problema rispetto al quotidiano? Sono stato inviato speciale a Le Figaro per più di vent’anni. Non avevo nessun problema particolare con il mio giornale. Semplicemente, nella redazione per la quale lavoravo così come in molte altre, con il tempo, il nostro mestiere aveva preso a cambiare. In redazione non si parlava più di giornale ma si cominciava a parlare di marchio, gli articoli erano diventati degli oggetti, e si cominciava a considerare anche noi giornalisti come tecnici dell’informazione. Il giornale aveva sempre più difficoltà a occuparsi in un certo modo di determinati argomenti e questa cosa mi faceva sentire ogni giorno più a disagio. Sentivo il bisogno di immaginare qualcosa di diverso.

Voi definite il vostro modo di fare informazione come di «lunga durata». E’ una dichiarazione filosofica e politica, prima ancora che editoriale, contro il turbogiornalismo che si afferma ovunque. In che modo questa diversa concezione del tempo influisce sulla qualità e sulle modalità dell’approccio giornalistico?

Per marcare questa differenza nell’intendere il tempo di lavoro, la prima scelta che abbiamo fatto ha riguardato i tempi di pubblicazione. Scegliere di fare una pubblicazione trimestrale significa necessariamente non essere centrati solamente sulla stretta attualità. Non siamo interessati alle notizie contingenti, non è quello che facciamo, non è il nostro oggetto di indagine. La ragione per cui esiste XXI è quella di raccontare il mondo. È una pertinenza. Questa pertinenza noi la troviamo in relazione al tempo. Avere a disposizione tempi lunghi per occuparsi di una storia significa anche avere il tempo per tornare indietro, per iniziare a riflettere in un’altra maniera, affrontare la vicenda di cui ci si sta occupando da un altro punto di vista. Si ha il tempo di fermarsi a ragionare su quanto fatto. Le persone che collaborano a XXI lavorano su tempi lunghi, che ovviamente non vuol dire che stiano necessariamente tutto il tempo sul campo. Significa però avere la possibilità di andare sul luogo, rientrare e riflettere su quanto fatto, di porsi delle domande e porle ad altri, confrontarsi,  approfondire e poi ritornare sul campo. Ci sono lavori che vengono pubblicati su XXI, come le bande dessinée, alcuni lavori di serigrafia ma anche determinati testi che possono richiedere tempi molto lunghi di lavorazione. In un certo senso, può essere più facile stare sempre sull’attualità. La cosa più difficile oggi per i quotidiani, e per la stampa in generale, è proprio ritrovare un rapporto con il tempo. Quello che si sta perdendo è la tensione fra queste diverse forme di tempo che possono essere riunite in uno stesso oggetto.

P.de_Saint_ExupéryVoi affermate di essere aperti a chiunque abbia delle proposte. Lavorate solo su questo oppure commissionate anche servizi “esclusivi”?

Lavoriamo molto sulle proposte che ci arrivano. Una volta che la proposta è stata valutata e accettata finanziamo il lavoro. Per poter seguire nel giusto modo una storia c’è bisogno di tempo e di risorse.

Ormai capita sempre più spesso che anche i grandi giornali si trovino a coprire gli eventi non con i loro inviati ma affidandosi a giovani free lance, che lavorano senza assicurazione, senza nessun contatto con le redazioni, senza le risorse economiche necessarie per lavorare in sicurezza. Sulla base della sua esperienza di inviato speciale per Le Figaro, come pensa siano cambiati il ruolo e le condizioni di lavoro dei giornalisti e dei fotoreporter che si trovano a lavorare in zone di conflitto o ad alto rischio?

Sì, è una questione molto dibattuta in questo momento. Ed è vero che è molto cambiato il ruolo degli inviati speciali.Sempre più spesso i grandi giornali scelgono di non inviare, o inviano sempre meno, propri giornalisti a seguire gli eventi ed è altrettanto vero che gli inviati all’estero spesso si ritrovano a seguire notizie molto prevedibili. C’è un’ultra copertura di notizie di attualità – che possiamo definire mainstream – e spesso sono tutti concentrati sulle stesse notizie. Allo stesso tempo, ci sono storie completamente ignorate e persone che si trovano a lavorare in condizioni di completo abbandono. Ritorniamo ai due punti cruciali da esaminare. Il primo è il cambiamento del ruolo dell’inviato all’interno delle redazioni e il secondo ha a che vedere con l’evoluzione dei mezzi di comunicazione. Fino a vent’anni si partiva per l’Afghanistan per mesi senza poter inviare in redazione articoli e testi. Oggi anche da zone critiche c’è la possibilità di trasmettere documenti con una facilità impensabile fino a non molto tempo fa. Mi ricordo, ad esempio, che nel 2001, dopo l’attentato alle Torri gemelle, in Afghanistan c’erano centinaia di inviati. È facile oggi prendere un aereo e andare da qualche parte, i mezzi di trasporto sono diventati più accessibili per molte più persone e la comunicazione è estremamente più veloce e più semplice. Questo ha comportato che molti inviati si siano ritrovati, in molte occasioni, senza nulla da fare. In realtà si sono trovati a fare desk. E sempre di più i giornali hanno preso l’abitudine di usare gli inviati speciali per fare desk. Loro magari si trovavano a nord di Kabul e gli chiedevano di fare pezzi che raccoglievano le reazioni registrate a Londra, New York, Baghdad… Questo ha portato alla fine a chiedersi, nelle redazioni: perché li abbiamo inviati lì, cosa ci fanno? Queste riflessioni sono coincise con la crisi economica dei giornali. E così gli inviati speciali si muovono sempre meno. Il secondo aspetto è il lavoro dei free lance. Giornalisti free-lance ci sono sempre stati. Anche a me, a suo tempo, è capitato di lavorare come free-lance. Ciò che bisogna considerare è che il giornalismo è sempre stato un mestiere in cui ognuno prende i propri rischi. Questo significa che nessuno, in nessun caso, è obbligato ad andare da qualche parte. Nessuno, mai. Sia che si lavori all’interno di una redazione sia che si lavori come free-lance. Se un giornalista prende la decisione di andare da qualche parte bisogna anche che se ne assuma la responsabilità. Questo mestiere non è un gioco. Ben inteso, è terribile vedere giovani giornalisti che partono per avventure rischiose, in alcuni casi, senza avere gli strumenti per gestirle al meglio e che possono costare loro troppo care. Quello che vorrei dire loro è di riflettere su ciò che intendono fare, valutare con estrema attenzione tutti i possibili aspetti prima di partire. I free-lance hanno sempre fatto parte dell’avventura del giornalismo, ma è molto difficile trovare una soluzione risolutiva per inquadrare e rendere il loro lavoro più sicuro e più tutelato. Come possiamo riuscirci? È una domanda aperta e di difficile risoluzione. Ma alla base c’è sempre una questione di responsabilità e di scelta personale.

La storia di XXI è – come ha detto – una bella storia, una storia felice. Qual è il rapporto con i vostri lettori?

XXI è una storia felice perché ci sono dei lettori e questi lettori sono sempre lì, continuano a leggerci e a seguire il nostro lavoro. Quel che sempre più dimentica chi fa i giornali è che i giornali si rivolgono a un pubblico di lettori, prima che di consumatori o di destinatari di prodotti pubblicitari. La nostra relazione con chi ci legge è molto particolare perché non abbiamo mai voluto targetizzare il nostro pubblico, ci siamo sempre rifiutati di inserire i nostri lettori in tipologie. Fin dall’inizio uno dei punti cardine di XXI è stata la scelta di rinunciare a qualsiasi apporto pubblicitario. Rinunciando alla pubblicità rinunciamo anche a trasformare i nostri lettori in possibili consumatori. Non ci capiterà mai di dover dire a un pubblicitario che le persone che ci leggono potrebbero anche diventare consumatori del loro marchio. Abbiamo una relazione vera con i nostri lettori, ci sono luoghi all’interno di XXI in cui ci incontriamo regolarmente, avviene uno scambio di opinioni, impressioni. Possiamo dire che si tratta di una relazione amorosa. Questo è testimoniato anche dall’estrema varietà delle persone che ci leggono. I nostri lettori sono giardinieri, bancari, commercianti, persone che lavorano negli ambiti più disparati. Quello che tutti condividono è una vera curiosità, il desiderio di comprendere le cose e conoscere ciò che accade nel mondo. I nostri lettori hanno sentito fin dal primo numero che noi non siamo lì per dire questa è la realtà, o è così che stanno le cose ma, al contrario, ciò che gli diciamo è: XXI vi racconta il mondo e vi dà la possibilità di porvi delle domande su ciò che avviene là fuori. Il nostro lavoro è esattamente questo: vi diamo la possibilità di porvi domande giustificate ma le risposte appartengono sempre e solamente a voi.

Da dove viene la decisione di pubblicare due riviste, XXI in cui ci sono testi e immagini e 6mois dedicata esclusivamente alla fotografia?

Potremmo dire che viene dallo stesso desiderio di esplorare le cose. La specificità di XXI è la narrazione. L’idea del raccontare. XXI racconta attraverso i testi, attraverso il giornalismo grafico, le interviste – l’intervista è un’altra forma di narrazione ma è comunque una tipologia di racconto, di indagine – e anche attraverso le immagini. Lavorando sulle fotografie abbiamo sentito il desiderio di creare qualcosa che fosse dedicato esclusivamente a questo aspetto. Perché? Perché amiamo fare queste cose, perché pensiamo ci sia una pertinenza nel farlo, un’urgenza. Per entrambi i progetti all’inizio ci hanno presi per pazzi. Per XXI ci dicevano che era una follia pubblicare pezzi così  lunghi, ora che nel giornalismo va tutto così veloce. Lo stesso è accaduto quando abbiamo deciso di creare 6mois. Ciò che abbiamo riscontrato anche nel fotogiornalismo è che c’erano progetti autoriali davvero straordinari, animati da una reale urgenza di raccontare il mondo, e dall’altra parte c’era nel pubblico un vero desiderio di conoscere quei progetti e quelle storie. Sia con XXI che con 6 mois noi diventiamo un ponte tra la voglia, il desiderio di raccontare degli autori e la curiosità, la volontà di conoscere dei lettori.

Pensate ci sia spazio per progetti di questo tipo anche nel mercato editoriale italiano, che attraversa un momento così critico? Mi riferisco, nel caso del nostro lavoro a Reportage, ai problemi di distribuzione e di visibilità nelle librerie, ad esempio.

Non conosco le specificità del mercato italiano ma, in linea di principio, perché un progetto di questo tipo non dovrebbe riuscire anche in Italia? Gli italiani sono forse meno curiosi dei francesi? Perché dovrebbe essere così? Credo ci sia la stessa voglia di conoscere le cose, lo stesso desiderio da parte degli autori di raccontarle. Credo che i giovani in Italia abbiano lo stesso desiderio di avventura dei giovani in Francia, si muovono, vanno a conoscere ciò che gli interessa. Questo appetito credo sia lo stesso. Allora bisogna cercare, in Francia come in Italia, di trovare il modo e gli stili per intercettare questa curiosità, questa urgenza, e costruire un progetto che la incontri.

Qual è il vostro rapporto con il web?

È uno strumento importante, senza dubbio, che ci permette – per esempio – di costruire e di mantenere un rapporto diretto e continuativo con i lettori. Uno degli aspetti alla base del web è la promessa di gratuità: tutto oggi sembra poter essere gratuito e tutti si buttano sul web. Anche noi  abbiamo un sito, ovviamente, ma l’utilizzo che ne facciamo è prudente. Pubblichiamo due riviste cartacee che hanno entrambe un costo. Come dicevo, il web è costruito su molte promesse, promesse delle quali oggi forse si sta iniziando a sentire il limite. Non si sta parlando dell’importanza di internet nella società contemporanea, che è evidente. La realizzazione di XXI e 6mois non sarebbe stata possibile senza l’utilizzo del web, nessuno può mettere in discussione questa cosa. Allo stesso tempo noi ci domandiamo anche qual è la finalità dell’utilizzo del web. La risposta è meno evidente di quanto potrebbe apparire.

 

 

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