“Border”, una storia siriana – Intervista a Susan Dabbous e Alessio Cremonini

di Maria Camilla Brunetti

Border” è un film italiano che racconta, in profondità e con grande sensibilità stilistica, il conflitto e le ripercussioni della guerra in Siria, a partire da una storia privata. Una produzione indipendente a low budget. Il cast è formato interamente da giovani attori italo-siriani residenti in Italia che, nel film, recitano in arabo. Alessio Cremonini, il regista, firma la sceneggiatura del film insieme alla giornalista italo-siriana Susan Dabbous, rapita con una troupe della Rai della quale faceva parte anche il giornalista Amedeo Ricucci, nel nord della Siria nell’aprile del 2013 da un gruppo di uomini legati a Jabhat Al Nusra, la cellula quedista attiva nel conflitto siriano. Presentato a settembre, in prima mondiale, al Toronto international film festival, ha riscosso un grande successo di pubblico e di critica. Incontro Alessio Cremonini e Susan Dabbous a Roma, in una serata mite di ottobre. Parliamo del progetto di “Border”, della sua genesi, dell’urgenza che li ha portati a voler raccontare cinematograficamente il conflitto siriano, della lavorazione del film.

Di cosa parla “Border”?

AC: Il film è ambientato e retrodatato alla primavera del 2012 quando la crisi siriana era molto diversa da quella di oggi.

SD: Essendo la storia di un viaggio però, in un certo senso, non perde mai di urgenza e attualità. Lavora anche sul concetto di temporalità, espandendolo. La scelta del viaggio è stata abbastanza strumentale ma anche fortemente voluta.

AC: I caratteri principali sono due donne, due sorelle, che vivono a Baniyas, una cittadina di mare della provincia siriana. Vengono avvertite da uno sconosciuto che il marito di una delle due, della più giovane, ha deciso di disertare dall’esercito lealista e unirsi ai ribelli. Questa scelta stilistica è stata fatta perché effettivamente, da un punto di vista militare, in Siria è successo questo. Degli ufficiali e dei soldati dell’esercito siriano, alla fine del 2011, hanno deciso di rifiutarsi di obbedire all’ordine di sparare sulla folla che manifestava e hanno disertato portando poi alla creazione dell’Esercito Siriano Libero. A noi interessava raccontare questo meccanismo, ciò che era avvenuto nella società siriana e che aveva portato persone normali, soldati di leva e ufficiali, a decidere di disertare per unirsi ai ribelli. Chi disertava doveva mettere in salvo la propria famiglia, che sarebbe stata vittima di terribili ripercussioni. Queste due donne quindi si trovano costrette a cercare rifugio in Turchia, come è successo realmente a centinaia di migliaia di siriani. Il viaggio verso la salvezza – che inizialmente sembra possibile – diviene nel corso della narrazione un’odissea molto più complessa e travagliata.

SD: C’è una cosa alla quale tengo particolarmente, da giornalista. In questo progetto c’è moltissimo realismo, è un lavoro di fiction ovviamente, c’è un set, degli attori, ma il canone che abbiamo sempre cercato di seguire è quello della verosimiglianza. Le storie che Alessio voleva raccontare con il suo film corrispondevano a quelle delle quali io, da giornalista, ero testimone e raccoglievo dai profughi siriani sul confine turco.

Com’è iniziata la vostra collaborazione?

AC: I primi contatti tra me e Susan sono avvenuti nel settembre 2012. È stato un incontro molto importante per la lavorazione del film. Non solo perché Susan è una giornalista molto preparata e conosce a fondo la storia siriana, ma anche perché è una donna e per me era essenziale poter scrivere con una donna. Le protagoniste del film sono due ragazze, interpretano due sorelle, avevo bisogno di uno sguardo femminile. Quando ci siamo conosciuti Susan mi ha mostrato le fotografie che aveva scattato ai profughi siriani incontrati nei suoi viaggi e, mentre discutevamo di ciò che stava succedendo, ho visto in lei un trasporto che mi ha molto colpito. Quando due persone devono scrivere insieme, il fattore umano, la capacità di entrare in sintonia, è fondamentale. L’urgenza del film, il motivo per il quale ho sentito il bisogno di affrontare questa storia, viene da una considerazione che mi era capitato di fare tempo prima. Da straniero alle questioni siriane, mi aveva impressionato che non ci fosse nulla, per esempio, che ricordasse, testimoniasse e documentasse il massacro di Hama del1982. Se un giovane siriano avesse interesse a documentarsi su quanto successo può affidarsi sì e no a poche decine di fotografie. I siriani non hanno la possibilità di poter condividere, con il passare delle generazioni, il proprio passato. In qualche modo non hanno una memoria storica visiva condivisa. Ci siamo detti: facciamo in modo che ci sia qualcuno, anche se un regista italiano, che possa dare a un giovane siriano tra dieci o vent’anni la possibilità di conoscere ciò che è successo nel suo Paese a partire dal 2011. Ci sarà un piccolo film, a basso costo, che però ha cercato di raccontare ciò che è avvenuto, perché non si ripetesse più quello che era successo con Hama. Questa è stata la spinta che ci ha portato a realizzare il film. Il desiderio di dare una memoria comune a un popolo non l’aveva. È questa la genesi di “Border”.

SD: Quando ho conosciuto Alessio mi è stata chiara fin dal primo momento la sua preparazione in materia. Conosceva dati e dettagli della storia siriana che mi hanno stupito. Mi era successo spesso di essere contattata da italiani che volevano avere informazioni sulla Siria e il più delle volte erano persone che non avevano la minima idea del contesto e del Paese. Alessio aveva una preparazione eccezionale. Questo aspetto e la sua idea del film, dal primo istante, mi hanno convinto a fare parte del progetto.

Alessio, da quanto tempo stavi pensando a questo film? In che modo ti sei avvicinato alla storia? Alla scelta degli attori?

AC: Anche per la scelta delle attrici Susan è stata un grande aiuto. Sara El Debush, per esempio, che interpreta una delle due protagoniste, mi è stata consigliata da lei. All’inizio non le avevo dato retta, mi sembrava troppo giovane. In effetti, all’epoca, Sara era minorenne. Poi, incontrandola, mi sono ricreduto.

Foto Border 1

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SD: Era una ragazza che mi aveva colpito durante i sit-in e le manifestazioni che facevamo frequentemente davanti all’ambasciata siriana a Roma, nel 2011. L’ho incontrata in quelle occasioni, che corrispondono anche al momento in cui mi sono messa in contatto con la comunità siriana di Roma perché prima di allora – prima della rivoluzione e poi della guerra – non avevo molti legami con la comunità. Di questa ragazza mi avevano colpito diverse cose. In primo luogo la freschezza e l’innocenza che traspaiono dai suoi occhi chiari, verdi. Dentro di me rappresentava una tipologia di ragazza che avevo conosciuto in Siria. Quando ci andavo da italiana, mi capitava di dividere le persone in categorie. C’erano gli ultra religiosi, i laici, c’erano i musulmani che bevevano gli alcolici, quelli che non li bevevano, i musulmani che pregavano quelli che non lo facevano. C’era la gente di città, la gente di campagna. Sara rappresentava – mi ricordava – la tipica damascena, una ragazza di Damasco proveniente da una famiglia di classe media, che crede nelle tradizioni ma allo stesso tempo vive una vita fatta di amici, di interessi, di internet, la vita normale di qualsiasi altra teenager ma con una sirianità. Per me sirianità significa un mondo: fare la passeggiata nel centro di Damasco, andare a prendere i dolci in un certo posto in un determinato giorno, vivere le festività, andare a trovare i parenti, avere una certa gestualità.

Credo tu abbia portato tutto questo nella scrittura di “Border”.

SD: Nei dialoghi c’erano momenti in cui dovevo subentrare ad Alessio, soprattutto quando interveniva il frasario e la gestualità araba, un modo peculiare di rivolgersi invocando sempre Dio, che fa parte non solo di un aspetto religioso ma appartiene proprio al lessico quotidiano. Le due protagoniste, nel film, indossano entrambe il niqab e per noi, fin dall’inizio, è stato importante cercare di rompere il tabù che in Occidente lega le donne che portano il velo integrale a pratiche di islamismo radicale e estremista. Abbiamo cercato di decostruire lo stereotipo che, nella visione occidentale, assimila un vivere profondamente islamico al terrorismo. Le due protagoniste, nel film, vivono una religiosità profonda e devota, ma sono le due eroine positive mentre l’eroe negativo è un laico, uno al quale della religione non importa niente. La religione è presente nel film nella misura in cui è presente nella vita dei siriani. Non c’è alcuna finzione o forzatura o estremizzazione. Questo è un aspetto che ho apprezzato moltissimo della visione di Alessio perché, vedendola dal suo punto di vista occidentale, ho trovavo molto originale il suo desiderio di rompere con gli stereotipi legati all’islamismo. Essendo sempre vissuta tra questi due sistemi di valori, quello occidentale e quello mediorientale, mi sono spesso trovata a registrare tutta una serie di preconcetti molto forti.

AC: Il motivo primario che ci ha spinto a voler raccontare la storia di due donne in niqab era proprio questo, la sensazione che in Occidente l’Islam sia visto in parte come una religione di assassini, l’idea che due donne in niqab non solo siano delle estremiste ma anche delle sottomesse, nell’accezione peggiore del termine. Noi abbiamo fatto di questi due personaggi femminili due persone che avevano studiato, che andavano in facoltà, donne con una loro personalità forte e complessa. Le donne che indossano il niqab in Occidente sono viste come fossili di un primitivismo pseudo arabo, ma questo non è vero in tutti i casi. Volevamo un po’ giocare sui cliché e destrutturarli.

Gli attori sono tutti italo-siriani e tutti non professionisti, alla loro prima esperienza. Come è stato lavorare con loro, con persone così fortemente implicate, emotivamente e nel privato, nella storia che dovevano interpretare?

foto border 2

AC: Quando hai la possibilità di lavorare con persone che vivono sulla loro pelle una situazione così cruenta – anche se gli attori che hanno recitato vivono stabilmente in Italia da molto tempo -, ogni cosa avviene in modo quasi magico, senza alcuna forzatura. Se gli attori hanno una scena di grande tensione, e stanno vivendo in prima persona il dramma che è al cuore della narrazione, sanno dove andare a cercare quelle emozioni perché le conoscono. Ragazzi che nel conflitto che stavamo raccontando hanno perso i loro parenti in Siria, la loro casa. Tutta la famiglia del protagonista maschile in questo momento si trova in Turchia, dodici persone – tra le quali anche bambini – che hanno dovuto lasciare tutto ciò che avevano. Ecco, in questo senso, nel lavoro con gli attori, l’approccio è stato in un qualche modo documentaristico. Potrei definire “Border” un film francescano, non solo per la sobrietà di mezzi, ma anche per ciò che riguarda scrittura, regia e recitazione. Si è andato all’essenza della questione. Non c’è nulla di costruito. Abbiamo cercato il più possibile, veramente, di essere realistici. Le persone che recitavano raccontavano una storia che era anche la loro, non gli era chiesto altro che di essere se stessi. Il nostro sforzo è stato togliere e gli attori sono stati straordinari.

Molti dei ragazzi che hanno recitato nel film, dallo scoppio della guerra non hanno più avuto modo di tornare in Siria a trovare i loro parenti o a trascorrere le vacanze estive come erano abituati a fare, mentre tu Susan, per il tuo lavoro di reporter, sei entrata più volte in Siria durante il conflitto. Come è stato raccontare loro la tragedia, la distruzione del Paese dal quale proviene la loro famiglia, ciò che vedevi?

SD: Questa è stata una parte molto difficile. Dovere rappresentare un ponte tra il conflitto siriano – ciò che era diventata la Siria – e i siriani residenti in Italia, che per ovvi motivi non potevano più viaggiare tra l’Italia e il loro Paese, è stato molto frustrante. Molto duro sia professionalmente che umanamente. Quando mi confronto con i siriani che vivono in Italia, quello che faccio è tornare dall’inferno e raccontargli cosa c’è. Loro però spesso vogliono la loro versione dei fatti, non la realtà. Per cui mi è successo molte volte – questo però mai con gli attori – di affrontare anche scontri piuttosto forti. È una dimensione che riesco a superare solo sul piano personale dicendomi che vorrò sempre bene ai miei amici anche se, anche quando, non accettano il mio lavoro, forse proprio perché gli porto una realtà che li fa stare troppo male. Capisco perfettamente anche il loro punto di vista, probabilmente se non fossi andata in Siria, avrei avuto le loro stesse reazioni, perché potevo conservare l’idea che avevo del Paese prima della guerra. Se non fossi stata testimone diretta del conflitto anche io avrei potuto, forse voluto, conservare l’immagine serena delle riunioni familiari, del passare del tempo con le persone care, la Siria delle mie vacanze estive. Capisco tutti coloro che vogliono chiudere la Siria nei loro cuori e nella loro mente. Ogni tanto succede anche a me. Anche io sento il bisogno di parlare di prima della guerra, dicendo: quando imbocco la strada principale del suq di Damasco poi trovo la gelateria sulla destra. Ho bisogno di questo. Perché la Siria lo merita, merita tutta la fatica di raccontarla da giornalista, tutta la fatica di Alessio di raccontarla da regista. I suoi bellissimi boschi, i deserti, le città antiche.

foto border 3AC: I ragazzi che hanno fatto questo film al momento, anche se volessero, non possono rientrare facilmente in Siria. A uno dei protagonisti è stato ucciso lo zio dagli shabiha. Se tu hai subito un lutto del genere, è la tua storia che racconti. Il film è la tua storia. Credo anche che molti degli attori che hanno preso parte a alle riprese possano rientrare con più difficoltà in Siria proprio perché hanno scelto di recitare in questo film. Per loro è stato un impegno, il sacrificio di una parte di sé. Susan, una settimana prima dell’inizio delle riprese, è stata rapita. Abbiamo cercato di prenderci cura gli uni degli altri. “Border” ha avuto una genesi, una lavorazione e uno sviluppo molto particolare per questioni intimamente connesse alla natura della storia ma anche molto collegate alla fiducia che nel progetto ha avuto il produttore Francesco Melzi d’Eril. L’ho incontrato a febbraio di quest’anno, alle undici di mattina sono uscito dal suo ufficio e alle quattro di pomeriggio mi ha chiamato per dirmi che avrebbe fatto il film. Il coraggio è stato anche quello di dare fiducia a dei giovani, cosa che in Italia non succede mai. Ragazzi che pochissime risorse sono riusciti a realizzare un progetto, e lo hanno fatto nel modo migliore in cui si poteva fare. Questa è la storia di “Border”.

About author