di Maria Camilla Brunetti
“…infrangendo la regola gerarchica primaria, che è ascoltare, ossia tacere, incassare e portarsi addosso l’umiliazione fino a trasformarla, di giorno in giorno, in sorda smania di rivalsa con annesso piano parricida o altrimenti, addio carriera”.
Sotto (Fandango, pp. 278 – euro 19), seconda prova narrativa di Gilda Policastro, a tre anni dall’uscita de Il farmaco, è – come intuibile dal titolo – un’indagine dei vincoli relazionali di sottomissione e sopruso, pratiche del privato e necessariamente – quindi – del collettivo. Alba e Camilla, i due caratteri primari, sono dottorande aspiranti a un posto in università. Alba è più giovane, un temperamento silenzioso e solo apparentemente fragile, Camilla ha qualche anno in più, una bellezza appariscente che rischia di distruggerla e una bambina di pochi anni, Daria. L’università che come ogni istituto concentrazionistico in Italia – il carcere, l’ospedale psichiatrico, la caserma – ha regole gerarchiche ferree di subordinazione e umiliazione, è il teatro sadico della narrazione. L’Italia emerge, da pagine costruite grazie a una lingua spezzata e ossessiva – lingua dell’angoscia – come il regno macabro del potere, circo grottesco e ferale di ancestrali schemi di violenza. L’Italietta dei baroni – incarnati nel testo da Ludwig, il docente a fine carriera – dei gerontocrati arroganti e perversi, il paese del padronato intellettuale animato da istanze di possesso verso il talento e la serietà delle menti più giovani, in massimo odio alla visione non assoggettata, al coraggio di chi vorrebbe osare un’autonomia, un rivolgimento di carte, uno spiazzamento, un’elusione del vincolo di umiliazione e offesa. In odio a un paese di vecchi potenti eppur ancora fragili alle pulsioni di una carne ormai in disfacimento, indagata con feroce lucidità da Policastro, in odio al vecchio tiranno c’è sempre stato – come noto – e oggi ancora di più, ciò che prefigura il nuovo. È così che, per uccidere ogni ipotesi di futuro, chi ha meno potere e meno anni deve subire, deve stare sempre – e per sempre – “sotto”. Così accade nel romanzo ad Alba e a Camilla, messe l’una contro l’altra da Ludwig, che le insidia entrambe con la promessa vana di un posto, di un qualche beneficio accademico, e le spinge a una competizione feroce, come se in palio ci fosse davvero qualcosa, un’ipotesi di carriera, una fragile, ambigua forma di futuro. La verità è che in palio non c’è nulla, in questo Paese, se non la reiterazione costante delle pratiche di assoggettamento. Le regole del “sorvegliare e punire”, della normalizzazione del corpo sociale e dei corpi individuali, vengono messe in atto attraverso pratiche sadiche di costrizione e ubbidienza, al fine di ottenere corpi docili, dimessi e silenti ma per questo non meno efferati. Sono anche le dinamiche della nuova schiavitù intellettuale che Gilda Policastro indaga, con puntualità pervasiva, nel romanzo. Assistiamo al disintegrarsi di tutte le istanze sociali; crolla la famiglia, la relazione di coppia, la parentalità, l’idea stessa di lavoro e di rapporto umano. Cede l’istanza di maternità; distruttivo è il rapporto di Camilla con la madre anziana così come fallimentare è quello con la figlia Daria. Alba è prigioniera del vincolo che i genitori continuano a serrare, nel tentativo di esercitare su di lei il controllo punitivo e ossessivo di quando era bambina. Non c’è spazio – nell’universo di Sotto – per relazioni che non siano di dominio o abbandono, di accettazione e oltraggio. Il sesso è emanazione della medesima violenza psichica cui i caratteri sono sottoposti o che esercitano. È mercimonio, sopraffazione, pratica di potere, ripulsa e bisogno del vincolo coercitivo. Sotto è il luogo della disperazione cinica, dell’abbandono, della sconfitta individuale, della assenza e del persistere polifonico di istanze tragiche. La scrittura è popolata di fantasmi, di lunghe ombre e ostili, per restituire il profilo impietoso di un paese violento, intimamente marcio che – non di meno – tenta un ruolo ultimo del resistere.
Ne parliamo con Gilda Policastro
Sotto indaga le pratiche disciplinatorie del regime universitario e post universitario. Le regole gerarchiche, i percorsi di accesso, le disposizioni del “sorvegliare e punire”. Possiamo considerare il meccanismo che determina le carriere accademiche come un sistema “concentrazionistico”, che mira a un controllo strutturato delle norme comportamentali degli individui che a questo sistema partecipano? Te lo chiedo anche alla luce della tua esperienza personale di ricercatrice universitaria.
L’idea concentrazionaria è un’idea in realtà estrinseca, ovvero posteriore alla composizione del romanzo, nondimeno ammetto che abbia una sua validità interpretativa. Come di fatto si dimostra (non solo nel libro, ma nella pratica comune, direi), ogni sistema articolato in gerarchie ingenera inevitabilmente sopraffazione e dunque sottomissione. Non credo però che l’ambientazione di Sotto debba essere considerata uno scenario documentale, così come l’intento principale non è quello di denunciare le storture o i deficit delle dinamiche di incardinamento universitario. Si trattava per me piuttosto di articolare una riflessione sul potere come legame bivalente e dunque di indagare quella tensione attrattiva tra vittima e carnefice o superiore e sottoposto che vale per qualsiasi legame, anche di tipo privato e nella fattispecie sentimentale. Non dimentichiamo che l’altro grande tema del libro è di fatto l’abbandono con la conseguente depressione ovvero precipitazione, manganellianamente, nel “laggiuso”: sotto, per l’appunto.
Vorrei analizzare l’esercizio del potere attraverso la figura di Ludwig, barone a fine carriera che dispone del destino delle sue dottorande; simulacro del dominio del più forte sul più debole, dell’uomo sulla donna, del maestro sul discepolo, del vecchio sul giovane. Metafora del dominio ma anche della sua fragilità. Il docente è incarnazione e emanazione dell’arroganza che preserva e nutre lo status quo, che rende l’Italia ancora – e sempre di più – una repubblica fondata sulla legge del sopruso, della compravendita e della clientela, una società gerontocratica e violenta, che premia – rendendolo schiavo – chi si lascia normalizzare. Coloro che chinano la testa. È così?
Come dicevo la denuncia sociale è un effetto involontario del libro, che ha un altro movente e obiettivi più larghi o comunque diversi: non il referto di un presente sciagurato, oppressivo e inevitabilmente autobiografico, bensì l’affondo nelle zone più buie e talvolta persino ripugnanti dell’essere umano, nelle sue forme di vita tanto private che collettive. Coloro che chinano la testa, non è detto, tra l’altro, che al posto dei carnefici non andrebbero a coltivare la stessa attitudine alla sopraffazione, è anzi assai plausibile il contrario, come già alcuni esperimenti condotti decenni fa nelle università americane hanno dimostrato. Ma questa è una tematica che appartiene più al mio precedente libro. In questo, per dirla con Benjamin, più che il carattere m’interessava approfondire il destino dei personaggi, ovvero la loro capacità di adattarsi o reagire a condizioni mutate ed ostili.
I corpi che vivono Sotto sono strumenti martoriati di fallimenti incongrui, ciclici (quasi fossero condannati a un eterno ripetersi) e programmatici. Strumenti per pratiche di furore, di normalizzazione e tortura, soggetti a sistemi di potere il cui strumento è l’instaurarsi di meccanismi disciplinari inscritti nel corpo sociale e in quelli individuali. L’università, la famiglia, il matrimonio, la maternità. Fantasmi di vittime e carnefici senza salvezza. È ancora contemplabile, per l’uomo contemporaneo, il perimetro di una libera scelta? Di una sottrazione?
La dialettica vittima carnefice, Hegel insegna, appartiene alla natura umana di tutte le epoche, nelle varie forme in cui essa può articolarsi. Non vedo nella condizione dell’uomo contemporaneo una specificità in questo senso. Non a caso ho diviso il testo in parti che dovrebbero idealmente corrispondere agli atti di una tragedia, ed è proprio con una pseudodidascalia teatrale che il testo comincia. L’inclinazione tragica è quella che più sento propria della mia scrittura: il confronto con le grandi questioni dell’esistenza (e della relazione tra gli uomini, in particolare), ricollocate in contesti contemporanei: tra Sofocle ed Euripide, si parva licet, ovviamente. Dunque la scelta, sì, ma in un senso ontologico, prima che storico-sociale, scelta come alternativa non scontata tra opzioni deprivate di uno statuto e una validità oggettivi (il male e il bene, per dirla brutalmente). È meglio un comportamento irreprensibile (almeno in superficie) o una vita incline al piacere e alla seduzione/seduttività, riducendo a una domanda molto elementare la vicenda del libro.
Sotto è una storia di scorie, di larve, di lasciti e spettri. Cosa succede a una società, a un individuo, quando “il passato è davanti al futuro”?
Il passato ha surclassato il presente rispetto alle certezze materiali e alle garanzie sociali. Ma il libro non s’interroga propriamente o esclusivamente su questo, e la citazione che riporti è un riferimento a una dinamica amorosa (ma al tempo stesso conoscitiva) descritta da Proust: il doppio ritmo della percezione degli eventi in base alle dinamiche della gelosia (più o meno viva) e del conseguente controllo. Dunque è ancora la relazione, per me, la specola del mutamento antropologico: in questo la coppia, curiosamente negli stessi anni “cellula di resistenza” per un autore come Sanguineti e “maledetta” per il suo antagonista Pasolini, consente una ulteriore opportunità di verifica dello sgretolamento delle condizioni di solidità e benessere garantite alle generazioni che ci hanno preceduto. Sotto riparte dal vuoto di alternative, dalla richiesta inevasa di un senso per strutture e istituzioni diventate ormai larve, dici bene, mere parvenze di ciò che è stato prima di noi il vivere sociale.
La corporalità – quindi la dimensione psichica – che tanta parte ha nell’imago collettiva del romanzo, diviene pratica di esercizio di dominio più che di dissidenza. Spazio di disgusto più che di eversione. Luogo di indagine della malattia, della psicosi, spazio di assunzione della dose quotidiana di veleno. Alba, è l’unica forse, sebbene in forma imperfetta, fragile e – più volte – mendace, a tentare una diserzione privata, una forma di abbandono dell’offesa – affondo – come unica risposta all’umiliazione. Sei d’accordo?
No, ciascuno dei personaggi, a suo modo, è portatore di una spinta o velleità al cambiamento e alla vitalità. Nelle condizioni differenti in cui si trovano ad agire, è certo più immediato pensare ad Alba, la giovane dottoranda, come a un personaggio agli “albori”, nomen omen, della sua vita professionale e amorosa, e dunque come alla portatrice almeno potenziale di un rinnovamento. Ma anche Ludwig, il vecchio professore a fine carriera, ha netta la percezione del desiderio, rifiutandosi di considerare la propria vita arrestata entro un campo limitato di possibilità, e volendone invece sondare o sperimentare ancora gli imprevisti, le sorprese, l’inatteso. Ludwig è, tra l’altro, il personaggio con cui, se proprio devo indicarne uno, riesco a identificarmi maggiormente, a dispetto del sesso e della condizione. Ma è tutto sommato il più disposto a riconoscere la propria fallacia e perfettibilità, a differenza delle due protagoniste, più inclini all’autocommiserazione o all’autoassoluzione.
È ancora la malattia – la disfunzione, l’infezione – come ne Il farmaco a rendere – in fine – gli esseri umani qualcosa in più che apparenze spettrali di un’ipotesi di esistenza? Nella struttura tripartita del romanzo, l’intermezzo rappresenta un cuneo di realtà nella finzione. Possiamo dedurre, da questo cortocircuito, uno degli aspetti principali della tua poetica?
La poetica è deducibile evidentemente dall’intero libro, dalla sua struttura come dal ritmo interno, dalle scelte lessicali come dallo sviluppo dei personaggi (molto più articolato, quest’ultimo, che nel mio libro precedente, dove mi concentravo maggiormente su una certa fissità tipologica), mentre l’intermezzo, alla stessa stregua della didascalia iniziale, è un modo per rendere ancora più trasparente al lettore che è dentro una dimensione libresca e dunque letteraria che si sta muovendo: inutile tentare, malgrado gli indizi e i depistaggi, una identificazione puntuale con situazioni attinte dalla realtà (mia biografica, in particolare). Se il reale, per citare quello, è l’impossibile, la nostra unica possibilità rimane l’invenzione.
(fotografia di Rino Bianchi)