Nusaybin è un piccolo centro di ottantamila abitanti nella Turchia sudorientale, dove la piana della Mesopotamia inizia inesorabile la sua discesa verso il deserto, le ultime alture ormai alle spalle. Una città tagliata in due da un confine tracciato con una riga su una cartina geografica, quando l’impero ottomano era ormai definitivamente sbriciolato e il sultano fuggiva dalla porta sul retro. Di qua la Grande Turchia di Ataturk, di là la Siria: le famiglie divise, le relazioni interrotte da una frontiera di cancelli, guardiole e filo spinato. La turca Nusaybin si trasforma in Al Qamishli dopo un centinaio di metri di sterpi e abbandono, e guai a chi prova a passare il check point di questo muro di Berlino mediorientale. La guerra ha reso tutto più complicato, come era prevedibile, segnando definitivamente la differenza fra chi da un lato rischia la vita per una bomba dal cielo e intanto patisce la fame, e chi, dall’altro, ha conservato casa e lavoro e continua come se non sentisse le esplosioni nella città gemella. In più, qui siamo in zona curda e le tensioni con lo Stato turco sono una ferita antica mai rimarginata: essere profughi siriani curdi in Turchia significa essere gli ultimi fra gli ultimi e quasi certamente andare incontro a diffidenza, paura e razzismo.
“Quando andiamo al bazar ci vendono la merce più scadente, lavoriamo dall’alba al tramonto e ci pagano la metà dei turchi o non ci pagano affatto”, denuncia Nesrin, che è riuscita a superare il confine clandestinamente, pagando una guida per evitare le mine di cui è disseminata tutta la frontiera dai tempi della seconda guerra mondiale. Come lei, tante famiglie con bambini, anziani, donne sole: una cinquantina di profughi siriani che ogni mercoledì si ritrovano qui in piazza, sotto un grande tendone allestito dall’amministrazione locale, per ricevere un pasto caldo fornito dall’assistenza pubblica. Sono un conforto e una resa, l’ammissione di non essere riusciti a mantenersi in Turchia e dunque l’anticamera del rientro in una patria disastrata, al di là del filo spinato e dei cancelli, dove ormai mancano anche l’acqua e la luce e alla povertà si è aggiunta la paura dei bombardamenti dell’esercito di Assad, che finora aveva lasciato relativamente tranquilla questa estrema provincia del nord est, a pochi chilometri dall’Iraq.
Con più di centomila morti e due milioni di profughi in due anni e mezzo, la guerra civile in Siria è stata definita dall’Onu l’emergenza umanitaria più grave dal massacro in Rwanda di vent’anni fa. In particolare, l’attacco col gas sarin che ha ucciso 1.300 persone lo scorso 21 agosto, attribuito a Bashar al-Assad, è il più feroce subito dalla popolazione civile dai tempi di Saddam Hussein. Tristi primati per un conflitto nato dal desiderio di liberare il Paese da una dittatura, poi degenerato in un massacro che sta mettendo in serio imbarazzo Europa e Stati Uniti, fra alterne dichiarazioni di intervento e aiuti sottobanco alle forze in campo.
Musa Hesen ha lasciato nove figli in Siria: soltanto lui, già anziano, è riuscito a passare il confine e ripete a tutti disperatamente che lo chiamano da casa piangendo per la fame: il governo turco non li accoglie e quindi non gli resta che tornare indietro e tentare di rientrare in Turchia con loro. Serin e Mehmed vengono da Aleppo – un viaggio di oltre 400 chilometri attraverso un Paese in guerra e con un bambino di appena due anni – volevano entrare in Iraq, ma la frontiera è chiusa e li hanno rimandati indietro. Sono arrivati a Nusaybin, dove hanno vissuto due mesi in albergo mentre cercavano un lavoro, ma la crisi e l’arrivo di gente disperata ha ridotto notevolmente le già scarse possibilità di un piccolo centro ai margini del Paese. Ormai senza soldi, sono costretti a tornare ad Aleppo, dove hanno perso la loro casa, distrutta dai bombardamenti. Lei è giovane e ha un bel sorriso, timido e aperto al contempo, mentre mi racconta del fallimento delle loro speranze. E’ chiaro cosa significa riportare un figlio ad Aleppo, oggi, che la guerra incrudelisce e le minacce si moltiplicano: “Che altro possiamo fare?”, dice. Il marito, accanto a lei, non commenta e continua a giocare a biglie con il figlio, la testa bassa.
Intanto a Ceylanpinar, a pochi chilometri da Nusaybin, a luglio i curdi del Pkk hanno strappato la frontiera ai ‘ribelli’ di Al Nusra e in tutta la zona in queste settimane si sono ripetute manifestazioni in favore del Kurdistan libero, mentre le popolazioni curde dei due paesi premevano sui confini per riunirsi, con comprensibile allerta del governo di Ankara. Per tanti costretti a tornare, altri, molti di più, forzeranno di nuovo le fragili frontiere, in Turchia come in Libano e in Giordania, soprattutto adesso che, con il probabile intervento degli Stati Uniti, si minaccia un allargamento del conflitto. La guerra, si sa, è più forte dei divieti e dell’azzardo, come testimoniano i profughi arrivati fin sulle nostre coste. Sono giorni di attesa, per la politica mondiale: per i siriani senza più niente da perdere se non la vita, invece, sono comuni giorni di disperazione.
foto: profughi curdi siriani a Nusaybin (Stefano Stranges)