La poetica del catenaccio
Sono su un’altura e, da vedutista, avvisto il campionato di calcio che è pronto ad ascoltare il fischio d’inizio. I reggimenti sono bene inquadrati, luccicanti nelle nuove “uniformi”, mentre i “mister”, con tanta gioventù davanti, avrebbero da comporli degli atti di citazione contro il Tempo. In qualità di strateghi, per non dire filosofi, vivono l’illusione d’una immortalità privata – lo stare ancora bene in vista su un piedistallo – e dunque si beano del loro Metodo, dei segreti d’una fenomenologia che hanno dilatato fino all’inverosimile, per il loro narcisismo e, inconsciamente, per giustificare i più che fragorosi ingaggi. Manterrò la mia postazione fino al fischio finale di primavera e fisserò su tantissime tele tutte le “battaglie” che andranno a comporsi sulle distese verdeggianti. Sarò a turno Antoine-Jean Gros, François Gerard, Horace Vernet, creatori d’istantanee napoleoniche. Il mio sogno è di vedere ancora in effetto il vecchio, caro, glorioso, italico Catenaccio; proprio questo m’aspetto, magari non come accadimento continuo, regolare, reintrodotto, ma a ragione di sequenze brevi, occasionali, a sorgere qua e là più per contingenze della partita che per un credo codificato.
La verità è che non è più possibile parlare di catenaccio. Esso ormai è un modo di dire e una definizione ben protetta negli Almanacchi. Non è più possibile parlarne perché gli attuali protagonisti non sanno cosa sia e dunque la spiegazione di tale sistema di gioco, il racconto di questa “visione della vita” non soltanto calcistica prevederebbe una platea adeguata, non dal punto di vista culturale, ma dell’età anagrafica. A chi rivolgermi rispolverando la “poetica del catenaccio”? Soltanto a individui della mia generazione e a persone più compromesse di me con gli anni. In tale condominio di reduci, tale parola, catenaccio, solleverebbe ancora un’idea di astuzia, di vittoria, di beffa per l’avversario. Trattasi di un sistema chiuso. E’ una porta di prigione borbonica in cui le mandate neppure si contano e in cui la chiave è grossa come un’arma. Chiave di stalla, di porcile, di segreta di castello, di fortezza. In sequenze fantastiche, oniriche, il catenaccio chiama in scena il “Malleus Maleficarum” e il Piranesi, il Conte di Montecristo e, da ultimo, una prigione borbonica a picco sul mare. Il “male” non può uscire da lì e, nella nostra variante quotidiana, nessun malfattore può violare la nostra intimità. Dunque, si sta al sicuro, tirato fino in fondo il catenaccio.
Il catenaccio della penisola italiana, il sigillo d’un pensiero era ciò che donava il sogno visto che le barricate innalzavano due rappresentazioni, rispettivamente quella degli assedianti e quella degli assediati. Ogni attacco, dalle fasce laterali o dai rioni residenziali di centrocampo, poteva essere cancellato dagli addetti ai settori laterali, centrali, o estremi, sorta di soldati di ventura addestrati soltanto a spezzare l’assedio. Libero staccato, marcatori a destra, al centro e a sinistra; e quindi il mediano, modello Serantoni/Benetti/Furino, a stordire ogni ipotesi mentale e pratica del regista. Il sublime, poi, era la presenza dell’ala tattica, ovvero d’un personaggio gagà/dandy/vagabondo sulla cui vita si sarebbe piacevolmente indagato e poi scritto. Un tipo anche “pericoloso” perché tatticamente sommo, risultando egli il protagonista di scorribande, eleganze e dripping nel fango. Costui copriva, allarmava stinchi e accarezzava in ogni momento l’idea del lancio risolutivo, quello per il centravanti, inoperoso fino ad allora ma creatore un istante dopo quella traiettoria, della crocca, della ghilomba, del tiro approssimativo che però si mutava, durante il volo, in parabola severa e risolutiva. Ecco, tutto questo. Era dunque poco tale scena elisabettiana, tale teatro della crudeltà?
Adesso il gioco bello non so cosa sia e, all’epoca, l’astuzia e l’originalità d’una scuola erano, in vero, delle distinzioni. Adesso il gioco definito “bello” non capisco a cosa si riferisca. Si tratta forse delle ariose aperture? Delle manovre fluide? Di partite che terminano con tanti gol? Ma non v’è forse un meraviglioso nell’arroccarsi dietro e poi comporre un’unica azione in avanti che poi si conclude in gol? Chi ha detto che il cosiddetto “spettacolo” rechi in sé il bello? E chi stabilisce che cosa sia lo spettacolo? Esso potrebbe essere benissimo una squadra che malgrado l’assedio non riesce a segnare. L’epica d’un assedio chi può più donarmela? Non v’è nella difesa ad oltranza, con tutti i mezzi disponibili, un meraviglioso che ricorda la difesa della nostra intimità domestica e dei nostri affetti? Chi stabilisce che una difesa assediata non sia una lunga sequenza di immagini sublimi? Rintuzzare nella vita di tutti i giorni le continue aggressioni, cosa prevederebbe? Forse la parola elegante, la citazione dotta, un’aria d’opera, un recitativo o piuttosto un scendere nella vita ed opporsi in tutti i modi ad agguati e soprusi? Del catenaccio, nel campionato che sta per aprirsi, ammirerò schegge in qualche fase di gioco ma sarà per me tantissimo. Non essendovi più la “scuola dei marcatori”, non posso pretendere quello scenario. Due Claudio Gentile per squadra, due Roberto Rosato, due Tarcisio Burgnich, due Mauro Bellugi, due Lionello Manfredonia e allora, forse, un ripristino dell’antico affresco sarebbe possibile.
La marcatura “a uomo” s’è estinta. I “piedi buoni” sono anche sulla linea difensiva ed è per questo, forse, che gli attaccanti oggi superano agilmente i venti gol. Per ammirare qualcosa del passato posso oggi puntare gli occhi soltanto su Giuseppe Biava e Daniele Portanova. E’ a loro che va il mio pensiero più affettuoso. Sono questi due difensori i superstiti di quel mondo e infatti sull’uomo sono i più bravi malgrado abbiano trentacinque anni e più. Ad essi vanno aggiunti gli argentini Walter Samuel e Nicolas Burdisso che sarebbero stati perfetti anche negli anni ’70. Dovrò gustarmi soprattutto loro quattro per sentirmi ancora addosso il respiro di Rosato, Burgnich, Galdiolo, Dolci, Mozzini, Danova, Cereser, Riccardo Ferri. Per quanto riguarda Bruscolotti, costui visse tra i due mondi, ma in fondo il suo antico prevalse. Quand’è che s’avvertirono le prime crepe al catenaccio? Qualche idea sorvola sulla mia mente: all’indomani della sfida di Salonico, nel maggio del 1973, tra il Milan e il Leeds nella finale di Coppa delle Coppe vinta per 1 a 0 con una rete di Chiarugi. In quell’occasione barricate senza fine – ma era una colpa? – con il tornante rossonero Riccardo Sogliano ad aggiungersi sulla linea difensiva. Il portiere William Vecchi dissolse quella sera ogni creazione di Lorimer e compagni. Si sparlò di noi italiani, rinunciatari e speculatini, su Nereo Rocco piovvero fulmini da tutte le parti; ma egli non aveva fatto altro che ripetere le gesta del suo Padova e poi, sempre con il Milan, la sfida contro l’Estudiantes nella Coppa Intercontinentale.
Un secondo flah credo abbia una sua validità: al tempo della disfatta della Nazionale in Germania nel 1974 si ripeterono tutte le già note critiche sul nostro modulo di gioco che pure ci aveva visto tra i protagonisti a Messico ’70. I fautori del nuovo invitarono a guardare intimamente la novità arancione di Cruyff. Come si sa, i confezionatori dell’ovvio sono sempre sul piedistallo e incensano il vincitore di turno. Essi erano facilmente riconoscibili: giacca e cravatta da “Grandi Magazzini” e, come dopobarba, s’avvertiva subito l’ordinarietà dell’Acqua Velva.
Come avremmo visto in seguito e su altri scenari, tipi così sanno astutamente cambiare opinione, riciclarsi dunque, e le loro inversioni a U sono spettacolari. E insomma, non possedendo gli assoluti, puntano soltanto su chi si sta imponendo nella realtà. Facile, no? L’Italia possedeva un patrimonio antico, addirittura risalente ai Romani, con quella tattica di attesa, di sfiancamento emotivo per l’avversario, ma secondo molti “doveva guardare gli altri”. I Romani erano tatticamente evoluti, poi ordinati e disciplinati. L’istinto del legionario è quello dell’italiano. Si vedano, così, di volo, le vittorie di Cesare nelle Gallie. Nel Torino di Radice – il quale aveva studiato bene l’Olanda – s’ammirò non più l’attesa ma il pressing alto e a tutto campo: Graziani e Pulici aggredivano sul sorgere la manovra avversaria. Il libero Caporale non rimaneva sempre indietro come ultimo baluardo ma costruiva, si proponeva in avanti, concludeva. Quel Torino fu la vera novità degli anni ’70 anche se vinse un solo scudetto. Con il Milan di Sacchi si chiuse definitivamente il discorso sui difensori puri, “a uomo”, e tra Tassotti, Maldini e Baresi l’appoggio, il giocare la palla, fu una regola e una disciplina. Gli unici marcatori puri furono Costacurta e Filippo Galli.
Bisogna, a onor del vero, dire che spesso il catenaccio s’è solamente spostato d’una trentina di metri in avanti e dunque gli antichi baluardi – sia all’epoca di Sacchi che oggi -trovano le loro ragioni nelle lande di centrocampo. In questo modo si ammettono anche “svagatezze e poesiole” dei centrali difensivi, là dove un tempo imperavano i terzini e lo stopper. Dunque il catenaccio ha soltanto cambiato nome e in questo scenario, naturalmente, gli atleti sono diversi, non si volgono più al passato anche soltanto per conoscenza, ed ogni mister si porta dietro preparatori di tutti i tipi; inoltre, con il sezionare il campo di gioco in settori, accreditando così ad ogni calciatore movimenti esatti (e soltanto quelli), il calcio è diventato altro. E comunque, affermare a commento d’una partita, che s’è adottato il catenaccio, be’, per molti “mister” è come ricevere un’offesa. Ecco, siamo a questo. Un po’ è come dire che una poetica dell’Ottocento, o del primo Novecento, fossero risibili. Ad ascoltare calciatori d’un passato abbastanza recente, quello che emerge è che, tra i difensori, chi era abituato a giocare “a uomo” poteva imparare ad esibirsi anche “a zona”, ma nel caso contrario le difficoltà incontrate dal difensore erano enormi e spesso i risultati deludenti. E oggi è lo stesso perché al difensore “a zona” insegnano i diversi tempi d’entrata, non sull’uomo, ma sul pallone. Marcare “a uomo” è più difficile. Come più difficile è impostare, cosicché nelle partitelle di allenamento tra difensori e attaccanti vincevano quasi sempre i difensori e questo perché essi erano “per professione” abituati a contrastare, a spezzare la manovra. E alla fine qualche gol lo realizzavano, vincendo dunque quelle piccole sfide in famiglia. Anche oggi la musica è la stessa. L’esempio ascoltato è questo: sette calciatori diciamo “alla Burdisso” contro sette calciatori “alla Totti”; ebbene, i primi vincerebbero quasi sempre. Chi me ne ha parlato sa sicuramente meglio di me fatti e correlati affreschi. Da ultimo: rimane splendida l’immagine d’un poeta spagnolo che all’indomani della vittoria dell’Italia ai mondiali in Germania elaborò una sorta di “poetica del passerotto”, favorevole senza dubbio allo spirito italiano. Egli infatti disse che quando un gatto, agguantato un passerotto ci gioca e si trastulla e crede d’averlo ormai come un trofeo, basta un attimo di distrazione ed ecco che il passerotto scappa, si libra in volo, fugge in contropiede. Ebbene, questo poeta stava evidentemente parlando dello spirito italico, catenaccio o contropiede è lo stesso. In Italia ogni cosa che è un valore viene distrutta.