Dieci anni fa, in occasione del quarantennale dall’uscita del film di Francesco Rosi, “Le mani sulla città“, fui incaricata, dal più rappresentativo quotidiano della Capitale, di intervistare il regista del film oltre che autore della sceneggiatura con Raffaele La Capria, Enzo Forcella e Enzo Provenzale. L’avevo incontrato, Rosi, intervistato e fotografato altrettanti anni prima nel suo studio, a Roma, sopra piazza Navona. Dopo l’intervista, che pubblicai su un mensile edito a Napoli, che si intitolava “Itinerario”, si lasciò fotografare nella luce plumbea del terrazzo, con una espressione serena e un po’ disgustata: quasi pioveva.
Dieci anni dopo ebbi fortuna: si ricordava di me.
L’occasione dell’intervista per il film di Rosi si tramutò in una lunga conversazione telefonica durante la quale le mie domande, relative sempre al film “Le mani sulla città”, diventarono un turbine che non sapevamo più, intervistato e cronista, come venirne fuori. Passammo più di un’ora al telefono, mai il tempo fu più benigno. Il giorno seguente la nostra conversazione, alla segreteria del quotidiano, Francesco Rosi lasciò una busta intestata a mio nome. Conteneva una lettera, per me: «Alle sue domande mi è venuto di risponderle così, con un articolo che è anche un po’ un discorsetto sul mio modo di fare cinema», e soprattutto conteneva le sue parole su la genesi del film: «Se per vostre ragioni non va bene così, non fa niente, varrà per un’altra volta».
Il quotidiano più rappresentativo della Capitale ritenne di non pubblicare l’articolo di Francesco Rosi che, con piacere, proponiamo qui, in occasione dei cinquant’anni dal premio Leone d’oro, al Festival di Venezia. Come sempre, Rosi è stato preveggente.
Maria Tiziana Lemme
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Con “Salvatore Giuliano” (’60-’61) avevo trovato un mio modo di fare cinema della realtà: porre delle domande a un pubblico che volevo partecipe e attivo, non passivo spettatore. La Sicilia e la mafia, lo Stato italiano, la Sicilia, i siciliani e la mafia, la collusione tra la mafia e alcuni personaggi delle istituzioni, della politica, delle Forze di polizia. Domande ancora senza risposte certe, se il primo dei misteri italiani, l’uccisione di Salvatore Giuliano, e la prima strage politica, Portella della Ginestra (1° maggio 1947), sono ancora in parte rimasti misteri… Lavorai con Suso Cecchi D’Amico, Franco Solinas e Enzo Provenzale, miei collaboratori alla sceneggiatura, sugli atti del processo, senza voler mescolare fantasia a fatti che non fossero accertati giudiziariamente; mi servii come attori e come testimoni di gente che aveva vissuto e sofferto quegli avvenimenti e ne conservava ancora le emozioni; evocai la realtà reinventandola rigorosamente e traumaticamente negli stessi luighi dove gli avvenimenti si erano prodotti: il percorso di ricerca di una possibile verità divenne la drammaturgia del film.
“Salvatore Giuliano” ebbe molto successo di critica e di pubblico in Italia e nel mondo. Berlino lo premiò con l’Orso d’argento, Franco Cristaldi, il produttore, fu ricompensato del rischio che aveva affrontato senza le facilitazioni finanziarie della Banca Nazionale del Lavoro, negate a un progetto che secondo il Ministero dello Spettacolo sarebbe incorso in grosse noie censorie. La premessa è necessaria per capire meglio com’è nato “Le mani sulla città”.
Nel ’62-63 volli tornare a Napoli pensando che fosse la città stessa nella sua cruda, contrastata evidenza quotidiana, a dettarmi una storia. Comunicai questa intenzione allo scrittore Raffaele la Capria, mio amico da sempre, e insieme decidemmo di metterci in giro, di farci ‘investire’ dalla città, dalla sua gente, dalle sue strade, dai suoi vicoli,dalla sua realtà, per poterci presentare alla fine al pubblico con delle conclusioni, delle riflessioni da sottoporgli che lo riguardassero non solo come spettatore ma anche come cittadino. Quindi, non la necessità di una storia privata, bensì pubblica, nel senso che pur avendo al suo centro l’uomo con le sue passioni, come sempre in un film, si trattasse di un uomo le cui azioni, nel bene o nel male, potessero essere giudicate da ognuno di noi in quanto direttamente e personalmente coinvolti socialmente e moralmente in quel bene o in quel male. Napoli allora viveva nel pieno della speculazione edilizia, un fenomeno comune a tante città, ma che a Napoli, la nostra città, con indignazione e dolore sentivamo che ne potesse cambiare non solo la faccia, ma la cultura e l’anima di parte dei suoi abitanti. Ci convincemmo che era quello che dovevamo raccontare, la storia sarebbe venuta dopo, da sola, quasi.
Era il ’61, a Napoli c’era il Congresso della Democrazia Cristiana dal quale nacque il Centrosinistra. Ci andavamo ogni giorno, come andavamo, nascosti, in Consiglio Comunale, ad assistere agli scontri tra l’opposizione, che contava oltre la sinistra anche qualche dissidente cattolico, e la maggioranza laurina. Mi impressionò Carlo Fermariello, segretario della camera del Lavoro, consigliere Comunale con competenze urbanistiche per conto del PCI, il suo fervore nell’agitare problemi che riguardavano l’idea del film che volevo fare. Lui e non altri avrebbe dovuto essere il mio eroe positivo: ci riuscì e fu bravissimo, convincente nel suo gioco tra la passione e l’ironia con le quali attaccava gli avversari. Mi resi conto che è lì, nel Consiglio Comunale di una città, che si costruisce il presente e il futuro, di una città e dei nostri figli. Non ebbi dubbi che era lì che doveva svolgersi il nucleo drammatico del film, in quegli scontri di mentalità e di moralità diverse, in quelle denunce di manipolazioni del piano regolatore, che, cambiando il colore su di una mappa, poteva cambiare la destinazione dell’uso del territorio corrispondente: un ospedale, una scuola diventavano un luogo da edificare a “privato” (?) uso, magari, in alcuni casi, facendoci arrivare i servizi a spese della comunità. Fatti che avevano visto Roberto Pane isolato, strenuo difensore della legalità. Materia da denuncia e da inchiesta e da struttura narrativa del film. Come l’episodio nel quale m’imbattei, il crollo di un piccolo vecchio edificio in prossimità di un gruppo di grattacieli in costruzione. Perché era crollato? Come? Altra materia da inchiesta, altra pietra portata alla costruzione del film. Ogni giorno dal nostro girovagare, dal nostro indagare veniva fuori un particolare, una verità nascosta, un fatto. Mi riconobbero nel quartiere nel quale era caduto il palazzetto, cominciarono a raccontare, esporre i loro sospetti che trovarono poi conferma nelle cronache dei giornali. E poi, gli incontri con Luigi Cosenza, che aveva condotto in Consiglio Comunale le battaglie che feci condurre a Fermariello, le sue preziose informazioni tecniche per guidarci nei meandri dell’Urbanistica. Fummo certi di poter appassionare quanto se non più della più appassionante storia d’amore…
Ecco com’è nato quel film, giorno dopo giorno, scoperta dopo scoperta, dettaglio dopo dettaglio, che costruirono una storia che riguardava tutti, attraverso una partecipazione appassionata che, in quegli anni di nascita del centrosinistra, al quale sia io che La Capria aderivamo con la speranza in quelle riforme che non arrivavano e non arrivavano ancora, rappresentava la nostra volontà di collaborare a costruire un Paese più giusto e migliore.
Al congresso democristiano incontrai Enzo Forcella, editorialista de “Il Giorno”, gli chiesi di lavorare con noi alla sceneggiatura, la sua competenza politica sarebbe stata molto utile, e lo fu. A lui aggiunsi Enzo Provenzale, mio abituale collaboratore. Gli interpreti, tranne Rod Steiger e Salvo Randone, erano tutti attori non professionisti secondo la mia abitudine collaudata dagli eccellenti risultati in “Salvatore Giuliano”. Il produttore fu Nello Santi che ebbe coraggio nell’affrontare, allora, un film che si sarebbe fatto sicuramente molti nemici. La scena più impegnativa del film fu il crollo del palazzetto, girato tutto dal vero con 7 macchine da presa. Non meno impegnative furono le scene dei dibattiti in Consiglio Comunale, in quanto avevo scelto tutta gente “vera2, non attori, che rappresentavano posizioni politiche diverse che venivano fuori con passione e a volte con violenza.
Quando nel 1963 “Le mani sulla città” vinse il Leone d’oro a Venezia, la platea si spaccò in due, metà applaudiva, metà fischiava; e così le forze politichr, come era prevedibile, sia a livello locale napoletano che nazionale, e così nei convegni che Bruno Zevi, sostenitore del film, organizzò. Fui anche denunciato per vilipendio delle Forze dell’Ordine, mentre il Centro cattolico cinematografico classificò il film “per adulti con riserva”. Per contro, meritai il Premio Inarch ’64 (Istituto Nazionale Architettura) per un “servizio di informazione di massa”, premio di cui vado fiero.
Il film era riuscito nel suo intento provocatorio. Denunciava il groviglio di intrighi politici-affaristici-mafiosi che stravolge la corretta utilizzazione del territorio, fondamento dell’Urbanistica.
C’è un’immagine del mio film che sembra essere all’origine della definizione dell’operazione Mani Pulite meritoriamente avviata e condotta nel Paese a opera della magistratura: i consiglieri comunali di Napoli, accusati di malgoverno e di corruzione, levano in alto le mani protestando la loro estraneità: “Le nostre mani sono pulite”. Il film fu anticipatore del conflitto d’interessi: un imprenditore-costruttore vuole e riesce a diventare Assessore all’Urbanistica. “Le mani sulla città”, apprezzato in tutto il mondo, a 40 anni di distanza parla ancora di cose di oggi. Infatti siamo ancora in attesa di una legge urbanistica repubblicana, dopo oltre 50 anni.
Roma, 11/07/03
Francesco Rosi