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“Tu vuoi sapere come ci si sente”, dice il sergente F., e nel frattempo si passa le mani sui calzoni seduto su una panchina del lungomare di Ostia. Da una parte ha il mare agitato fuori stagione, i cavalloni che si inseguono urlando fino ai pontili e agli argini, dall’altra una fila di palme decapitate dal punteruolo rosso. Un vento capriccioso gli alza e riabbassa a intervalli irregolari il ciuffo scuro sulla fronte, appena sopra gli occhi cerulei. Mi aspetto di trovarli fissi, sbarrati, da matto, o persi nella liquefazione eccessiva del malato di febbre, ma così non è. Sono occhi gentili e limpidi, e il modo in cui la sua ragazza Michela si affaccenda attorno a lui, riempiendolo di attenzioni – “rimettiti la giacca perché fa freddo, hai sete, il dottore ha detto che devi bere molto” – mi fa pensare che sia un uomo buono, di cui fa piacere prendersi cura. Un’altra conferma di questa tesi mi viene dal modo in cui reagisce alle preoccupazioni, un tantino assillanti, di Michela. La prende in giro gentilmente, non sempre le dà retta, ma il più delle volte sì. “Lo fa per me, è spaventata, chi non si spaventerebbe? Ho una malattia che non esiste, che nessuno ti dice come si può curare davvero”. (…)