– di Riccardo De Gennaro
Domenico Porzio definì i suoi romanzi “conradiani”, Geno Pampaloni scrisse che nessuno, nella letteratura contemporanea, sapeva dare voce come lui alle “neiges d’antan”, Andrea Barbato disse che era il più importante scrittore italiano del dopoguerra. Stefano Terra, giovane operaio, poi soldato in Albania, partigiano di Giustizia e Libertà, collaboratore de Il Politecnico, infine grande inviato de La Stampa e a lungo capo dell’ufficio Ansa di Atene, riusciva però raramente ad avere il tempo per “scrivere – come diceva lui – sul serio”, obbligato ogni giorno a “liquidare la vita con un pezzo al telefono agli stenografi”. Per questo, nel 1967, a cinquant’anni tondi, se la riprese la sua vita e chiuse con il giornalismo. Accadde dopo il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia, che Terra aveva vissuto in presa diretta. La persecuzione del regime militare nei confronti dei suoi amici intellettuali, poeti, artisti, lo convinse che la sua doveva essere una testimonianza storica, non solo legata alla cronaca.
“Come si poteva fare ancora il giornalista in un paese dove gli arresti e le deportazioni (…) non si contavano più?”, si chiede Massimo Novelli a un certo punto del suo libro, “La grande armata dei dispersi e visionari”(collana Carta Bianca, Ediesse), il primo dedicato alla vita di Stefano Terra, la vita di un “avventuriero timido”, come amava egli stesso definirsi, tra Atene e Damasco, l’Egitto e Bagdad, quando si “innamorò” della principessa Soraya, Gaza e Nicosia, il Bosforo e la Jugoslavia di Tito, dove dopo tre anni di corrispondenze venne arrestato ed espulso.
Il suo vero nome era Giulio Tavernari. Era nato a Torino nel 1917. Aveva raggiunto il successo molto giovane con il romanzo “La generazione che non perdona”, pubblicato al Cairo nel 1942 e apprezzato da Calvino e Vittorini, che glielo ripubblicarono per Einaudi con il titolo “Rancore”, ma non da Pavese, forse per una certa sua irruenza e vitalità come faceva d’altronde immaginare il suo soprannome di “Testaccesa” o il fatto, ad esempio, che accanto alla macchina da scrivere portatile aveva sempre un bicchiere di whisky. “Questi che vedi, grande, grosso e scarmigliato col passo e le movenze dell’orso di piazza, è Stefano Terra”, così lo descrisse in un’intervista a La Stampa dell’81, uno dei suoi grandi editori, Valentino Bompiani, con cui Terra pubblicò forse il suo romanzo più conosciuto, “Alessandra”.
A dispetto dell’importanza degli editori con i quali pubblicò (oltre a Einaudi e Bompiani, anche Rizzoli, Mondadori, Guanda, Fratelli Bocca, Scheiwiller) e dei premi che vinse (il Campiello il più importante), Terra morì però dimenticato e a lungo tale è rimasto. Il libro di Novelli, giornalista e scrittore anch’egli, figlio di un grande inviato dell’Unità e della Gazzetta del Popolo, che conobbe Terra, Piero Novelli, è il tentativo non solo di recuperare all’attenzione dei lettori e della critica la figura di uno scrittore di rango, ma di tentare di trovare – come in un’inchiesta – le ragioni per le quali ci sono scrittori che finiscono nella “grande armata dei dispersi e visionari”, non solo dopo la morte. Novelli ha una spiegazione, che gli viene anche dalla sua profonda conoscenza di vite altrettanto marginali e refrattarie al compromesso (prima di questo ha pubblicato testi dedicati a Guido Seborga, Renzo Novatore, Ezio Taddei…) e che forse può qui essere sintetizzata in una dichiarazione dello scrittore egiziano Albert Cossery, grande amico di Terra a Parigi e stimatissimo da Albert Camus: “Non ho mai scritto una frase che non contenga una dose di ribellione”. Uno dei protagonisti de “La generazione che non perdona”, la storia di una cospirazione antifascista a Torino all’epoca del patto Ribbentrop-Molotov, dice: “Il mondo si divide in due categorie: gli sfruttati e gli sfruttatori. Gli sfruttati lavorano e crepano in guerra. Gli sfruttatori ci mangiano sopra. Bisogna prendere le parti di uno dei due: prendere le parti di nessuno significa prendere la parte dei secondi”. Terra morì nel 1986, nel pieno del craxismo, un fase che – attraverso il ventennio berlusconiano – perdura ancora. Come avrebbe potuto essere ricordato?