– di Maria Camilla Brunetti
Quando Lilia Bicec decide di abbandonare la Moldova, il marito e i due figli, ha 35 anni. Deve partire, è richiesto a lei come a tante altre donne dell’ Europa dell’Est. È l’unica possibilità per cercare di costruire un futuro, che non sia di sola miseria e violenza. Ha 35 anni quindi, nel 2000, quando arriva in Italia, una laurea in giornalismo e un lavoro da cronista. A nessuno importa dei suoi studi e delle sue passioni. Insieme ad altre giovani donne, sceglie la via dell’ esodo clandestino, l’unica che le sia concessa – su mezzi di fortuna – attraverso i Paesi dell’ex cortina di ferro. Correre, camminare e nascondersi. Velocemente – di notte, nel buio dei boschi cechi – e poi di nuovo. Il primo tentativo fallisce, sono fermate al confine tra Germania e Repubblica Ceca. Arrestate, trascorrono la notte in una cella dove – incisi sui muri a centinaia – ci sono i nomi di chi negli anni ha cercato di oltrepassare il confine ed è stato fermato, da quella notte anche il loro. Trovano rifugi di fortuna in Cechia e dopo giorni di isolamento qualcuno torna a prenderle e l’esodo ha di nuovo inizio. Correre, camminare, nascondersi per giorni. In fuga da una città all’altra, fino ad arrivare a Verona. Poi l’Italia, gli alloggi fatiscenti nelle periferie delle città in cui vivono solo clandestini, i primi lavori presso famiglie italiane, da colf o badante, lavori di fatica come per tutte le sue connazionali. Cosa sanno gli italiani delle donne cui affidano le cure delle loro case, dei loro figli piccoli, dei loro genitori anziani? Conoscono le loro storie, la storia dei loro Paesi, le loro paure? Il terrore di essere fermate dalla polizia, di perdere il lavoro, di non avere niente da mandare a casa. La solitudine, la mancanza di tutto, in un paese di cui non si conosce nulla. Sentirsi, essere, invisibili. Non potere parlare per Lilia, che è giornalista e che ha nelle parole la sua più forte arma contro l’oblio e la dimenticanza, significa smettere di esistere. Per questo, per non dimenticare la sua storia e la storia della sua famiglia inizia a scrivere lunghe lettere ai figli rimasti in Moldova, e intesse un universo di parole che diviene il filo potente di una memoria intima che è allo stesso tempo quella di un intero popolo, di una terra divisa e conquistata. “Questa è la mia storia – dice, – ma è anche quella del mio Paese: è la mia tragedia, ma è anche la tragedia di tante altre madri”. Miei cari figli, vi scrivo – pubblicato in questi giorni da Einaudi, è il diario intimo e il testamento della diaspora di un intero popolo.
Incontriamo Lilia Bicec a Torino in occasione del Salone Internazionale del libro.
La diaspora femminile nei Paesi delle ex regioni sovietiche è un fenomeno che ne sta sgretolando, dalle fondamenta, il tessuto sociale. Ce ne puoi parlare?
L’emigrazione femminile è una costante – una specificità – nella storia dell’Europa dell’Est. Si può parlare di un vero e proprio esodo femminile, con conseguenze tragiche soprattutto per le fasce vulnerabili della popolazione, le più povere, dove il fenomeno è molto più rilevante. Dopo il crollo dell’Urss, dopo il 1991 – nelle 15 ex repubbliche sovietiche che hanno ottenuto l’indipendenza, il tasso di disoccupazione raggiunse livelli drammatici. In aggiunta a una condizione economica ai limiti della sopravvivenza, si unì una scorretta informazione veicolata dagli organi di stampa dei vari Paesi.I media veicolavano l’immagine dell’Italia come terra promessa, un paese in cui trovare lavoro era facile, in cui c’erano possibilità per tutti. Per questo, l’emigrazione dall’Est all’Italia ha delle specifiche che in altri paesi europei come Francia o Spagna non ritroviamo, o in percentuali molto inferiori. Per anni c’è stata una vera e propria opera di disinformazione, che ha creato nell’immaginario dei popoli dell’Est un’ aspettativa mendace sulle reali condizioni di vita e sulla situazione socio economica italiana. Questa è una delle cause che spiegano la portata di questa diaspora. Con il crollo del blocco sovietico si ebbe una vera e propria disoccupazione di massa, in un paese il passaggio da una concezione socio-politica ad un’altra è sempre traumatico e così è avvenuto per ex regioni dell’Urss. Alle persone era negato uscire dal Paese, non ci si poteva spostare neanche di villaggio in villaggio all’interno della stessa regione. L’unico modo che si aveva per cercare un’ alternativa di vita era la via della clandestinità. Uomini ma soprattutto donne che fuggivano dalla miseria. C’è un modo di dire in romeno che, più o meno, dice così: è la donna che mantiene il calore nella famiglia. Nel nostro Paese però sono state le donne a essere costrette a lasciare le loro case e i loro figli. In Moldova ci sono 150.000 orfani bianchi, quei bambini che stanno crescendo senza le loro madri, costrette lasciare il paese per cercare di permettergli un futuro migliore, meno tragico del loro. È un esodo enorme che ha conseguenze gravissime.
All’inizio, sei stata costretta a vivere senza linguaggio, tu che avevi e hai nella parola la tua mano sul mondo. Questo è parte della tragedia dei migranti. Esclusi dalla parola si diviene invisibili.
Una delle cose più umilianti per chi emigra è il non potere parlare, non sapere la lingua del Paese in cui si arriva. Se tu non sai o non puoi parlare non sei più un essere umano perché non ti è più dato usare quella cosa sacra che è la parola. Sono laureata in giornalismo e prima di partire ho lavorato a lungo come cronista in Moldova. Ero appena arrivata in Italia quando un giorno un signore mi rivolse la parola, all’epoca ancora non sapevo dire quasi nulla in italiano. Vedendo il mio smarrimento, l’uomo mi disse che se non parlavo era forse perché non sapevo leggere. Pensava fossi un’analfabeta, in un certo senso aveva ragione. Ecco, in quel momento, ricordo di avere pensato che avevo smesso di esistere. Ho amato da subito l’Italia, la cultura e la lingua italiane. Nel pochissimo tempo che mi rimaneva tra un lavoro e l’altro ho cercato fin dall’inizio di conoscerne quanto più possibile la storia. Anche per questo, in Italia, ho deciso di tornare all’università. Se si vuole comprendere le ragioni profonde di un paese e dei suoi abitanti bisogna sforzarsi di conoscerne la storia e la memoria. Quando sono arrivata in Italia lavoravo, certo, ma non esistevo in senso sociale. Sopravvivevo, ero un essere invisibile. È stato solo grazie ai miei figli, quando dopo quattro anni e mezzo finalmente sono riuscita a portarli a vivere con me, che sono rinata. Sono stati loro a riportarmi dentro la vita. I loro amici, i loro insegnanti. Prima ero solo un essere che sopravviveva in silenzio ai margini della società. Buona parte dell’intellettualità moldava è stata costretta a emigrare: giornalisti, scrittori, medici, insegnanti. Se non hai aiuti e sei solo e non hai ancora gli strumenti per integrarti non importa chi tu sia – chi tu sia stato – la società ti espelle.
Tramandare la memoria significa anche ricostruire un’identità. Le parole diventano le radici che tengono un destino – e quello dei migranti con ancor più forza – ancorato all’esistenza. È così?
Il valore della memoria per i migranti è assoluto. Trasmettere ai figli la propria storia, la storia del proprio Paese e della propria famiglia è l’unico modo per non recidere per sempre le radici. È la parola a divenire l’unica radice per chi è migrante. Quello che ho cercato di fare, anche attraverso il libro, è raccontare la storia di un intero popolo e di un Paese attraverso una storia intima e personale, che è la mia storia e quella della mia famiglia, unica e allo stesso tempo così simile e vicina alla storia di centinaia di migliaia di donne e delle loro famiglie. Non volevo fare denuncia, volevo solo raccontare la storia di un popolo che ha patito in silenzio perché aveva paura. “Siamo rimasti in pochi e dobbiamo stare in silenzio perché la Siberia è piena di tombe di bessarabi” era quello che mi diceva mio padre – arrestato in giovane età e deportato in Siberia per la sola colpa di avere una piccola manifattura di tegole -, per paura di nuove deportazioni, che ci venissero a prendere e ci facessero sparire.
Puoi parlarmi di “Moldbrixia”, l’associazione di scambio interculturale che hai fondato a Brescia?
Ho deciso di fondare l’associazione per cercare di aiutare le migranti. A Brescia – che conta una comunità moldava di 5000 persone (in Italia sono presenti 150.000 moldavi con regolare permesso di soggiorno, la comunità moldava di Roma conta 8000 persone) – quando ci arrivai, c’era un unico luogo in cui gli immigrati potevano ritrovarsi, si chiamava il Parco degli incontri, ora non esiste più. Era davvero l’unico posto pubblico in cui le migranti, soprattutto dell’Est, potevano conoscersi, confrontarsi e aiutarsi, ma non era certo sufficiente per potersi integrare. Per far sì che un’integrazione sia effettiva e durevole devono esserci braccia pronte da entrambe le parti, da coloro che arrivano e da coloro che ricevono. Moldbrixia vorrebbe essere un ponte italo-moldavo, un momento di ascolto e di conoscenza tra due culture, per cercare di abbattere i luoghi comuni e gli stereotipi che nascono dal non conoscersi. Quest’anno siamo stati invitati alla Festa dei popoli, ed è questo il senso profondo di questo progetto.