Ciao Ferruccio. Ecco che il congedo da questi affanni, quaggiù, ha riguardato anche te. In silenzio e in disparte te ne sei andato, in un posto alla periferia di Roma che mi è caro come cara mi è stata la tua esistenza. Ho saputo dov’eri e sono salito sul mio autobus dei ricordi – il 409 – e li ho raggiunti i miei luoghi di un tempo; e ti ho avvistato nel mio tremolante silenzio, impaurito dalla mia stessa presenza, lì, da te, senza dire niente, senza che sapessero che ero venuto per te, per guardarti, da lontano, certo, ma potendo alla fine dire dire:”L’ho visto, sono pacificato”. Non mi sono accreditato all’ingresso né altrove e ho visto quel poco che era giusto che vedesse il mio animo: mi sei sembrato Van Gogh nel suo autoritratto: volto scavato da più agguati, da più aggressioni decretate dalla natura; e poi una barba rossiccia e bianca, e un sopore da contatto col mistero. Mi sono anche sentito un “intruso”, non volevo abusare con gli occhi, ledere anche minimamente la tua quiete. Poco tempo, quello ritenuto giusto, e poi via, ad aggiornare di nuovo l’elenco delle PARTENZE.
Quanto mancava? Uno, due giorni? La periferia questa volta mi si è mostrata in tutte le sue ferite e non c’era un luogo, intorno, che mi giungesse come favorevole, come dispensatore di coraggio. Tu nella mia periferia per salutare la vita. Come non piangere? Stavi “laggiù” tra il campo della “Pro Roma” a Largo Preneste e quello del “Savio” alla Borgata Gordiani. Le coordinate emotive non mutano in me e descrivono sempre campi di gioco, ovvero luoghi di serenità. Ma v’era dell’altro, adesso. Non l’estasi del ricordo e dunque della medicazione per il tempo dissolto; no, adesso v’era in me l’immagine dell’ennesima tessera che si staccava dalla rappresentazione – dalla vita! – e, precipitando, si frantumava al suolo. Se avessi avuto una qualche speranza circa la tua salute, mi sarei stretto in me stesso, felice nella periferia ultima, e l’avrei cercato un bar “anni ’60”, un bar pieno di vecchi sapienti, esperti di calcio come un raduno di mister, e tra loro mi sarei mischiato gustandomelo tutto il mio caffè della periferia. Come sarei stato felice nel mettermi alla ricerca di quel bar sognato! Ecco, uscito dalla clinica, qualcosa riferibile a quegli anni lo avrei di sicuro scoperto tra il Pigneto e via dell’Acqua Bullicante e, quand’anche non avessi trovato all’interno i vecchi sapienti dei miei sogni, il caffè lo avrei preso con tanta felicità in cuore, brindando alla tua salute. E invece la storia stava edificando “altro”. Ciao Ferruccio. Ciao alla tua sublime “esilità”, alla tua classe che il mondo non vide se non a momenti e sempre proponendo raffronti: tuo padre Valentino, tuo fratello Sandro. La tua sublime “esilità” è stata per me il tuo involucro preziosissimo, la tua armatura. Vi era in te tanta classe e poi tanto coraggio. Circola sul mondo virtuale un filmato che ti riguarda; deve essere il 1963 se dichiari i tuoi diciotto anni: sei all’Inter, e’ un pomeriggio di allenamento e l’aria è d’una appena dissolta nebbia. Si tratta d’un documento preziosissimo ed io lo lego a qualcosa di remoto, di medievale, un frammento di valore inestimabile, quasi un Codice Miniato. Sei perbene, sei spigliato nel rispondere all’intervistatore e quando lui ti chiede di tuo fratello ecco che con tanta eleganza – la stessa che avevi in campo – rispondi che per capire Sandro si deve essere veri intenditori di calcio e che, in fondo, tuo fratello non è “per la massa”. In verità dichiari la tua poetica affermando che il calcio non è soltanto dribbling e personalismi ma anche tocco sapiente, geometria. Dunque, porti tuo fratello nel luogo che gli compete, quello dei fuoriclasse. Quanto affermi, insomma, è che si deve masticare calcio per capire chi sia in verità Sandrino; essere ad un livello superiore per capire quanto sia difficile la “semplicità”. La tua non è una difesa “del sangue”, che peraltro sarebbe giustificabilissima, ma è un vedere oltre; esporre cosa sia il calcio, gioco collettivo dove l’intelligenza e la grandezza di un calciatore si misurano anche con il rendere semplice quanto potrebbe risultare complicato. Che poi, a dirla tutta, i dribbling Sandrino li effettuava eccome e, quanto a “l’uno contro uno” e lo scatto e la velocità, un campione lo era davvero. Diffonde un’atmosfera di sereno quel filmato: è ciò che eravamo in un nitore di speranza. Ascoltandoti, pare possa esserci un futuro per tutti. La tua umiltà risplende e sentendoti dire che, se non dovessi arrivare in alto con il football, ti iscriveresti all’università, a Scienze Politiche, ad Economia e Commercio, bé, è un dichiararti posato e adulto. Quell’anno hai già il diploma di ragioniere in tasca e dunque sei già partecipe della vita come continuo sacrificio e senso del dovere. Parli così bene che sembri (che sei) uno studente modello in una scuola prestigiosa. Sei grande per me Ferruccio. E sei un capo e la grinta te la vide per primo “Veleno” Lorenzi, che ti considera , appunto come grinta e caparbietà, superiore a Sandro. Ma cosa dire ancora sulla tua “esilità” classica? Eri un centrocampista vero, – mediano, regista, mezzapunta – un simbolo della Lazio di Juan Carlos Lorenzo che ti volle a tutti i costi per risalire dalla serie B. Era necessario sia il tuo nome prestigioso e poi quella sapienza calcistica che, unita ad una giusta “cattiveria”, ti faceva leader senza tante storie. Oh, eri “leggero”, come no. Questo dicevano. Certo, ma il piede lo mettevi sempre, mai evitando il contrasto, e lo rincorrevi l’avversario e lo contrastavi ed eri tosto ed eri caparbio, generoso. Qualcuno avrebbe potuto scambiare i tuoi atteggiamenti con quelli di un presuntuoso ed eri invece un ragazzo sincero, forte e che dava tutto. Dalla Lazio hai avuto senz’altro di meno di quanto avresti meritato e fosti Campione d’Italia nel 1974 praticamente osservando i tuoi compagni giocare: formazione perfetta quella di Maestrelli, “macchina” ben oleata che non prevedeva cambi in corsa. Eppure, in quella Lazio “a tutto campo”, avresti, a mio avviso, fatto esemplarmente la tua parte visto il modo in cui “andavi negli spazi”, anche in fase difensiva. Eri un giocatore già moderno, altroché. Altro che “esilità” e chiacchiere a rimorchio. Anni duri, poi, al Sant’Angelo Lodigiano. Anni di formazione, pure, e di disincanto. Ma da classico ti fu facile apprendere l’arte del mister e diventasti bravo anche dalla panchina: promozioni col Siena e col Venezia. Ti seguivo, non credere, non mi riuscivo a staccare dalla figurina di centrocampista del Venezia: eri accanto a Manfredini e sotto Bertogna e il tuo sguardo mi sollevava sempre atmosfere del “David Copperfied” televisivo. Caro Ferruccio come t’avvistavo da lontano sognandoti grande dalla panchina…! Sognavo, in fondo, un risarcimento per te, una tua grandezza da bordo campo visto che, nel rettangolo di gioco, riferimenti e confronti erano stati sempre con tuo padre e tuo fratello. Ecco, avrei voluto dire: “Dalla panchina vincerà.” Pure quella storia delle tue rivelazioni nel libro “Il terzo incomodo” – al di là di quanto poteva essere accaduto al tempo della grande Inter di Moratti senior e Helenio Herrera con stimolanti ed altro – testimoniava un desiderio di “mettere le cose a posto”. Erano forse delle grida di aiuto per dire ad alta voce che avresti potuto anche tu scendere in campo accanto a tuo fratello Sandro, a Jair, Suarez e Corso. In quell’occasione m’apparisti come un uccellino ferito: chiedevi aiuto e ricostruivi un tempo dissolto nel quale era mancata la nicchia dove porre il tuo busto. Perché anche tu lo meriti un piedistallo sul quale poggiare il tuo sguardo di classico, “esile” sì, ma generoso di cuore. Ciao Ferruccio, altro filmato che si ferma nel mio cuore. Ciao Ferruccio, un’altra esistenza che s’inserisce, verticalizza in cielo.