Per la rubrica “Italiani”, abbiamo ascoltato le storie dei giovani italiani che hanno scelto di portare all’estero il loro talento e la loro professionalità. Questa rubrica è dedicata però anche a quelle donne e a quegli uomini che non sono nati in Italia ma che qui hanno deciso di rimanere. Cercando – come chi oggi lascia il paese – una possibilità di futuro. Angel Luis Galzerano, scrittore e cantastorie uruguaiano nato da genitori campani, ci racconta la sua storia.
“Vita di uno scrittore diviso in due” di Francesca Bellino
Lo scrittore e cantastorie Angel Luis Galzerano si sente un italiano a metà. Sin dal giorno della sua nascita vive in bilico tra due mondi, l’Italia e l’Uruguay, amando tutti e due i Paesi, che da tempo prova a narrare nei suoi libri e nelle sue canzoni. “Ho sempre nostalgia. È la mia maledizione” dice, per sintetizzare la sensazione costante della sua vita. I genitori sono nati a Campora, un paesino di contadini vicino Vallo della Lucania (Campania), e sono emigrati nel lontano Uruguay nel 1950. Angel è nato a Montevideo, dove ha vissuto fino al 1980 quando, a 18 anni, ha scelto di partire per l’Italia per fare il servizio militare (grazie al biglietto aereo pagato dal nostro Consolato per i figli di italiani) e di scappare dall’Uruguay devastato dalla dittatura che anche il padre, ormai vedovo, aveva deciso di lasciare già due anni prima tornando in patria da “italiano che non aveva fatto fortuna”.
Da quel giorno è cominciata la vita italiana di Angel che nei suoi testi scorre sempre parallela a quella vissuta a Montevideo. La doppia appartenenza e l’essere figlio di una migrazione di andata e ritorno sono anche il cuore del suo nuovo libro, “Cronache sentimentali di un italiano a metà”, pubblicato dalla casa editric “Compagnia delle lettere”.
Angel, perché hai cominciato a scrivere?
Scrivo per evitare l’oblio. Per evitare che la memoria si sbiadisca. Cerco di portare nero su bianco immagini, fotografie mentali che non voglio dimenticare. Scrivere, però, quando sono arrivato in Italia, è stato anche un modo per integrarmi. Ovviamente io parlavo spagnolo e dovevo imparare l’italiano. Solo che non era facile in caserma. Lì parlavo tutti dialetti diversi (e bestemmiavano tanto, cosa che in Uruguay non è comune) e spesso facevo una gran confusione. Scrivendo in italiano ho preso fiducia. Poi, all’epoca, gli stranieri, da ovunque venissero, erano percepiti come speciali, erano aiutati, non c’erano le barriere di oggi anche se io mi trovavo al Nord – prima a Udine, poi a Brescia – e al Nord, si sa, manca l’abitudine a incontrarsi come in Uruguay, o anche nel Sud Italia. Spesso è faticoso stare con la gente. Ma prima la caserma, poi il lavoro in una fabbrica di plastica che mi trovò un prete, mi hanno fatto capire molte cose del Paese dei miei genitori. Ho conosciuto un’Italia che oggi non c’è più: quella del benessere e dello spreco
Come nasce “Cronache sentimentali di un italiano a metà”?
È, in qualche modo, la continuazione del libro precedente “Di qui e d’altrove”, dove ho raccontato la mia esperienza e quella dei miei genitori come emigranti. Qui, però, approfondisco maggiormente la mia America Latina, cercando di evidenziare quanta Italia c’è in Uruguay. Soffro quando sento o leggo su giornali italiani i luoghi comuni sulla terra dove sono nato. Spero che i miei testi riescano a mettere in discussione almeno una di queste banalità diffuse. L’Uruguay è un paese speciale. Piccolo, ma ricco. È chiamato la “Svizzera dell’America Latina” e, dopo gli anni neri della dittatura, oggi vanta un presidente “guerrilliero, José Mujica, che dona ai poveri il 90 per cento del suo stipendio e si batte per un modello di vita sostenibile”. Dunque sono orgoglioso di essere uruguayo, ma mi sento sempre diviso in due. In tutti questi anni ho vissuto cercando di conciliare due mondi, prendendo il meglio da ogni parte e creando un luogo ideale. Quando trovo cose che non mi piacciono dell’Italia – come l’assenza di meritocrazia, buona parte dei mezzi d’informazioni palesemente dalla parte del potente di turno, il non voler scommettere nel futuro con la ricerca e sul lavoro ai giovani, la corruzione della casta dei politici, eccetera… -, mi rifugio nell’altra patria e viceversa. Mi sento italiano a metà, appunto. Anche se la metà italiana si allarga quando vedo Roberto Benigni che recita “La divina commedia”, l’operato del sindaco Angelo Vasallo, l’eredità poetico musicale di Fabrizio De Andrè, quando leggo il credo di Don Gallo.
Cosa ti ha deluso dell’Italia?
Il degrado culturale degli ultimi anni. Quando sono arrivato in Italia già si sentiva il tempo della “Milano da bere”, ma la cultura ancora non era vista come qualcosa di inutile. C’era molta vicinanza e curiosità verso l’Altro. Oggi, nonostante ci sia internet, ho la sensazione che l’Italia viva in una specie di bolla dove si guarda l’ombelico e non vede il mondo oltre i confini. Oppure lo vede sfocato e distorto. In questo hanno molte responsabilità i mezzi di comunicazione. Mi ha deluso, dunque, la poca consapevolezza che l’Italia ha della grandezza del suo passato culturale – che trovo straordinario – la poca memoria storica in politica, il non voler ricordare che anche gli italiani sono stati emigranti e che esistono altre “Italie” fuori da questa. Mi hanno deluso le polemiche verso gli stranieri con scopi elettorali, il non voler riconoscere come italiani i figli degli emigrati nati qui. Insomma, con gli anni mi si è aperta davanti agli occhi un’Italia distratta e superficiale incapace di fare autocritica e dove Berlusconi mi ha sempre ricordato moltissimo il Menem argentino.
Come immagini la trasformazione dell’Italia nel futuro?
Spero, e lo spero per i nostri figli, che nelle trasformazioni che avverranno non si perdano i diritti sociali guadagnati con tanti sacrifici, che non venga smantellato il welfare. Sappiamo tutti che il grado di civiltà di un Paese si misura con l’attenzione che dedica a coloro che socialmente sono più indifesi. L’Italia è destinata diventare, sempre più, un Paese multietnico, anche se ancora ci sono molte resistenze. Basta fare un giro in una scuola per vedere i semi dell’integrazione. I ragazzi italiani stanno in perfetta sintonia con i loro compagni con diversi caratteri somatici. Per loro è una cosa normale. In futuro questo inciderà sicuramente, a mio parere positivamente, sulla società italiana. E spero incida anche sulla politica, anche se oggi sembra poco disposta alle trasformazioni. Ma qualcosa già accade… Basta guardare ai nuovi italiani candidati alla Camera come Khalid Chaouki, nato in Marocco ma cresciuto in Emilia Romagna, diventato uno dei rappresentanti di questi nuovi italiani appunto.
Oggi come vivi?
Mi sono sposato, ho due figli, insegno musica nella scuole. Oltre questo da un po’ di anni giro l’Italia nelle vesti di cantautore e di scrittore. Abito a Paderno, un paesino della provincia di Brescia. È una zona industriale, perciò con molta mano d’opera straniera. Qui le comunità sono come ghetti. Non ci sono molti luoghi di ritrovo dove incontrarsi con gli italiani, né fra immigrati. È molto difficile vedere un senegalese che socializza o condivide qualcosa con un pachistano o con un cinese, anche se vivono nello stesso posto. Lo stesso vale (con le dovute eccezioni) per le comunità latinoamericane. Anche se per i latinoamericani l’integrazione è sempre stata più semplice per la lingua più vicina all’italiano e per la religione in comune portata in America Latina dai conquistatori. Ad agevolare la convivenza, però, credo siano i figli in età scolare perché questo obbliga i genitori a interagire con il contesto e a mischiarsi con gli altri. Al momento non vedo altre forme d’incontro in atto.