Lydia Cacho. Una vita dalla parte delle donne e delle bambine

Il 25 Novembre è stata la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. Per questa occasione abbiamo scelto di dedicare un approfondimento al lavoro di Lydia Cacho, la straordinaria reporter e attivista messicana, da anni in prima linea per difendere i diritti di donne e bambine a rischio  della propria vita.

di Maria Camilla Brunetti

Dal 2004 è vittima di minacce da parte del crimine organizzato colluso con il potere politico messicano. È stata sequestrata e torturata, minacciata di morte e di violenze sessuali da uomini della polizia e da esponenti di quell’ordine pubblico che avrebbe dovuto proteggerla. Lydia Cacho è la giornalista messicana, vincitrice tra gli altri del Civil Courage Prize e dell’Olof Palme Prize, insignita nel 2007 da Amnesty international del Ginetta Sagan Award per la tutela dei diritti di donne e bambine. Nel 2010 è stata nominata World press freedom hero dall’International press Institute.
Figlia di una psicologa femminista francese di origini portoghesi, Cacho nasce a Città del Messico nel 1963 e fin da bambina segue la madre nelle comunità più inaccessibili del Paese. In quelle periferie e in quelle campagne impara a credere a un sogno di uguaglianza “tra le trincee della strada”, in quelle che nei primi anni ’70 erano chiamate le “città perdute” del Messico, nate nel cuore d’immense discariche di baracche di cartone.

“Suppongo – racconta – che mia madre non abbia mai immaginato l’effetto che produsse nella mia anima trovarmi accanto a quei bambini e bambine in quelle estreme poverissime periferie. Mentre lei e i suoi colleghi erano impegnati nei loro colloqui, io cercavo di giocare con i miei coetanei accorgendomi con doloroso stupore di come bambine della mia età non fossero in grado di tenere una matita in mano per fare il più semplice dei disegni”.

In Memorie di un’infamia (Fandango libri/www.fandango.it) Cacho narra la storia della propria vita: dall’esempio indelebile dell’impegno materno alle origini della sua militanza al fianco delle donne vittime di violenza (si è occupata a lungo anche dei casi di femminicidio e sparizione di giovani donne a Ciutad Juarez) dal dramma dello sfruttamento e della prostituzione minorile alle ore drammatiche nel carcere di Puebla, quando venne arrestata e torturata per ore.

All’attività giornalistica ha sempre affiancato quella di attivista. A fine degli anni ’90, insieme ad altre compagne, fonda a Cancun il Ciam – Centro di attenzione alla donna – una casa di protezione e rifugio per donne e bambine vittime di violenza, del quale è tuttora direttrice. Ma è nel 2005 che la sua vita prende una svolta drammatica, quando nel marzo di quell’anno pubblica I demoni dell’Eden, un libro-inchiesta sconvolgente, che in breve tempo conquista le prime pagine dei media internazionali. Dopo avere raccolto per mesi le testimonianze delle piccole vittime e avere indagato la rotta della tratta di bambine tra Messico, Stati Uniti e America Latina, Lydia Cacho accusa apertamente Jean Succar Kuri, potentissimo uomo d’affari messicano, di essere a capo di una rete internazionale di pedofili, dedita alla tratta e allo sfruttamento della prostituzione minorile. Kuri è uno degli intoccabili del Messico, protetto e legato a doppio filo alle più alte cariche governative del Paese, amico di governatori, giudici e magistrati.

La macchina messa in moto per chiudere la bocca una volte per tutte alla giornalista è delle più feroci e ben congeniate. Su mandato di Mario Marín, amico di Kuri e governatore dello stato di Puebla, il 16 dicembre dello stesso anno (sette mesi dopo la pubblicazione del libro) Lydia Cacho viene sequestrata a Cancun da un gruppo di uomini della polizia messicana e trasferita illegalmente in un penitenziario del distretto di Puebla all’estremo nord del Paese. 24 ore e migliaia di chilometri di un viaggio all’inferno, durante il quale viene molestata fisicamente e più volte minacciata di morte e di violenza sessuale. L’opinione pubblica internazionale si mobilita in suo soccorso, giornalisti, attivisti e media cercano di tenere alta l’attenzione sul suo caso per salvarle la vita.

“Ho ricevuto minacce per tre anni – dice nelle Memorie – più un attentato; avvocati spaventati o comprati mi hanno tradita, abbandonandomi, e ogni strumento giuridico è stato utilizzato per distruggermi, fisicamente e finanziariamente. Sono stata testimone della violazione di pressoché tutte le procedure giudiziarie, del furto di un computer dalla Commissione nazionale per i diritti umani (Cndh) contenente testimonianze preziose, della sparizione di prove e della corruzione di giudici. Mi sono salvata, e ho conservato la libertà, grazie alla mobilitazione dell’opinione pubblica e all’appoggio di colleghe e colleghi del mondo del giornalismo. (…) La mia storia, che altro non è se non la cassa di risonanza di quella delle bambine trasformate in vittime, avrebbe potuto essere la stessa di molti messicani e messicane che ogni giorno, nell’anonimato, subiscono i colpi e le ignominie di una società ingiusta e arbitraria”.

Se per il mondo Lydia Cacho è un esempio raro di coraggio e determinazione, in Messico – il suo paese – ancora oggi c’è qualcuno che la vuole morta. Lei non crolla. Non si arrende. Affronta l’umiliazione e la paura di morire, la violenza e gli insulti. Nel 2005 riesce a uscire viva dal carcere di Puebla pagando la più alta cauzione mai chiesta dai giudici di quel distretto e decide di portare il suo caso davanti all’Alta Corte di Giustizia Messicana. Sarà la prima donna nella storia del Messico a testimoniare in quell’aula. Perché lo fa? Perché riesce a sopportare tutto questo?

“Tutte e tutti abbiamo pianto: a volte in silenzio, spalla a spalla, prendendo fiato per continuare a cercare nuove piste, altre volte nella solitudine delle nostre case, chiedendoci cosa possa spingere un uomo a distruggere la vita di una creatura indifesa. Le domande erano infinite. Le risposte limitate e sterili. L’unico argomento che per molto tempo ci ha aiutato a non cedere era il ricordo del coraggio di quelle bambine e di quelle ragazzine. Se loro, uscite dalle fauci dell’inferno, erano capaci di continuare a raccontare il loro dolore, nessuno aveva il diritto di arrendersi”.

Grazie al lavoro di Lydia, Jean Succar Kuri, in una sentenza storica per il Messico, lo scorso anno è stato condannato a 112 anni di carcere per i reati imputatigli.

Il Messico, per un giornalista che voglia fare onestamente il suo mestiere, è uno dei Paesi più pericolosi al mondo; la collusione tra crimine organizzato e alti vertici dello stato gode della quasi totale impunità. Dal 2000 sono circa 80 i reporter assassinati, sono la maggioranza quelli vittime di minacce, intimidazioni, violenze di ogni tipo, depistaggi e ricatti.

Nel maggio del 2008, pochi giorni prima di apparire in tribunale per testimoniare al processo contro Jean Succar Kuri, Cacho riesce a salvarsi miracolosamente da un incidente d’auto. La macchina sulla quale viaggiava risulta essere sabotata: qualcuno aveva tagliato di netto le viti che bloccavano le ruote. Ancora una volta decide di non farsi intimidire, di non lasciare il paese. Continua a fare ricerche per il libro che uscirà in Messico nel 2010 –  Schiave del potere (ancora Fandango libri in Italia) – in cui traccia la rotta internazionale della tratta di donne e bambine ai fini di sfruttamento e prostituzione. Uno straordinario reportage, un lavoro durissimo di giornalismo investigativo, in cui l’autrice delinea la mappa delle nuove forme di schiavitù contemporanea, che le società globalizzate invece di debellare aiutano a implementare come tragiche casse di risonanza e diffusione.

 

Pochi mesi fa, il 29 luglio del 2012, viene nuovamente minacciata di morte. Mentre lavora alla sua scrivania, nella sua casa di Cancun. Da una delle ricetrasmittenti che le servono per comunicare con la scorta sente una voce maschile che la ingiuria dicendole che se non avesse smesso di indagare avrebbero rispedito il suo corpo a casa in piccoli pezzi. È stata costretta a lasciare il Paese, Amnesty international e gli organi internazionali che monitorano sulla sicurezza dei giornalisti hanno lanciato appelli e petizioni perché la sua storia continuasse a essere di estrema urgenza.

Lydia Cacho scrive queste parole a poche ore dalla cerimonia di consegna del premio Iwmf (International women’s media Foundation), che le viene assegnato nel 2007: “Di fronte a questa immagine, ricacciando il pianto in gola, penso che, in realtà, non mi pento di nulla. Spero di diventare vecchia e di tornare a guardare questa fotografia di Anna (ndr. Politkovskaya, che aveva ricevuto lo stesso premio nel 2002) come memento della realtà mondiale; ma, se così non dovesse essere, credo con tutto il cuore che il Messico possa cambiare e che – prima o poi – vi esisterà un’autentica democrazia. Credo nel ruolo del giornalismo come lanterna del mondo, come diritto della società a sapere e capire, e credo che i diritti umani non siano negoziabili. Per quanto le nostre storie individuali lentamente si dissolvano, i piccoli passi avanti non svaniranno. Il mio non è il caso di una donna: è quello di un paese. E il Messico è ben altro e ben di più che un pugno di governanti corrotti, di imprenditori ambiziosi e di criminali organizzati. Possono cancellarmi dai media, possono anche eliminarmi fisicamente. Quel che mai potranno negare è l’esistenza di questa storia, eliminando la mia voce e le mie parole. Finché sarò viva continuerò a scrivere e finché scriverò continuerò a essere viva”.

 

 

 

 

 

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