“A chi apre la porta allo straniero, a chi è aperto abbastanza per entrarvi”
Cinque mesi e più di 6000 kilometri in bicicletta dalla Spagna al Mali. Questo è il viaggio che Marianita Palumbo e Tobias Mohn hanno raccontato in Lentamente l’Africa (Ediesse, 2012).
“Seduti alla scrivania di una casa in una qualsiasi città europea, l’immagine di due persone in bicicletta nel mezzo del deserto ha qualcosa di terribilmente fragile, coraggioso o semplicemente pazzo. Quando però sulla bicicletta ci si è seduti, nessuno di questi sentimenti sembra descrivere come ci si sente veramente. Dopo poco tempo sulla strada, non ci si sente certo pazzi, tanto meno coraggiosi, e invece di sentirsi fragili si ha la netta sensazione che ciò che si sta facendo sia la cosa più giusta.”
Avere poco più di vent’anni e decidere questo viaggio quasi per caso, passeggiando per le strade di Parigi. Scegliere di attraversare in bicicletta il sud della Spagna, superare il tratto in cui il Mediterraneo tocca l’Oceano e spingersi oltre le montagne del Marocco. Oltre il deserto del Sahara occidentale, attraversare Mauritania, Senegal, Guinea fino a sentire le voci di Bamako e scegliere di continuare a pedalare tra le distese sabbiose del Sahel significa indagare quella “qualità metafisica” dalla quale il contemporaneo occidentale sembra così atterrito: la lentezza. E scegliere di indagare la lentezza significa necessariamente e soprattutto confrontarsi con la qualità intrinseca di un certo modo di essere, di dialettica dei rapporti umani, di utilizzo della tecnologia e della tecnica per raggiungere un significato straniero e fecondo di “ricchezza”. Che ricalibri i limiti di giudizio e di decodifica della società, di partecipazione e di sguardo civile. Aprirsi a un tempo altro e a un muoversi altro, affidarsi alla grammatica di un vento che definisce e cancella ogni mappatura e ogni sintassi conosciuta.
“Quando ci si abitua al movimento lento della bici, attraversare veloce un paesaggio è come violarlo. Spostarsi senza sforzo, senza sentirsi addosso quelle salite e quelle discese, il caldo secco e poi l’umido non appena si attraversa il versante in ombra del rilievo, sentire quale silenzio che fa paura quando ci si ferma a bere un po’ d’acqua: in bicicletta non si vede un paesaggio, ci si entra dentro, il segreto è spostarsi senza soluzione di continuità, senza comprimere né il tempo, né lo spazio.”
Lentamente l’Africa è, proprio per questo, un libro di incontri, di “occasioni” dell’essere. I viaggiatori lenti, coloro che attraversano fisicamente i tempi e gli spazi tra i luoghi, hanno una qualità peculiare che ne determina l’esperienza e la percezione: l’attenzione. Perché ogni movimento possa essere allo stesso tempo calibrato, non invasivo, il più possibile in armonia con il resto. Perché non ci sia dispendio inutile di energia e distrazione. La voglia di mettersi in cammino, di rendersi disponibili all’incontro. La cura del dettaglio.
“D’improvviso ci accorgemmo che lentamente una figura si avvicinava: un uomo vestito di blu, con un bianco turbante e un bastone stretto nella mano faceva un tutt’uno con il gigante cammello bianco che cavalcava. Si avvicinò, quasi ci scavalcò con le sue lunghe gambe e, attraverso le chiome degli alberi, ci porse un saluto silenzioso, un gesto della mano che ricambiammo con lo stesso silenzio. In quel niente infinito salutarsi, rendersi visibili all’altro, funzionava come una stretta di mano. Essere ospiti voleva dire manifestare discretamente la propria presenza perché tutti potessero dormire tranquilli sopra lo stesso fazzoletto di terra.”
Essere uomini su uno stesso fazzoletto di terra, condividere un destino. Il viaggio è questo. Non la meta ma l’attraversamento. Cercare di spingere sempre il confine più in là.
Abbiamo fatto qualche domanda a Marianita e a Tobias, che ci raccontano così il loro viaggio.
Che cosa significa scegliere di affrontare un viaggio di questo tipo, 5 mesi e 6000 km attraverso il sud dell’Europa fino al Mali, in bicicletta?
Significa decidere quali sono le proprie priorità e scegliere che l’esperienza diretta di un luogo complesso come l’Africa é una priorità. Vuol dire privilegiare un tipo di conoscenza, quella appunto che si acquisisce centimetro dopo centimetro, procedendo lentamente, e accumulando incontri, paesaggi, stanchezza, rabbia, felicità, attraverso un effetto progressivo e di ripetizione e quindi di variazione. Vuol dire che si decide di costruire la propria storia, la propria versione dei fatti, mettendosi in gioco.
Le consuete mappature di “tempo” e “spazio” che dimensioni acquistano?
Sono proprio queste le due variabili che sono rimesse totalmente in gioco e in discussione dal ritmo della bicicletta e dal fatto di viaggiare lentamente (perché poi ci sono anche quelli che in bicicletta viaggiano velocissimi!). La bicicletta ti permette di percorrere il tempo e di trascorrere lo spazio, in un certo senso! ed é quasi una magia! Cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che così come spazialmente si gioca sulla continuità, cioè parti da A e arrivi a B e hai fatto tutto (o quasi) pedalando, contemporaneamente vivi il tempo di quella distanza: cioé per andare da A a B ci hai messo tot gironi, ore, minuti… La società moderna e post–moderna, il mondo insomma che abbiamo ereditato e nel quale viviamo, rincorre il suo più grande fantasma che é quello dell’ubiquità: essere ovunque allo stesso tempo. Abbiamo messo a punto una tecnologia sofisticata di comunicazioni (che é anche quella che permette a Tobias e a Me di avere una relazione a distanza senza perderci completamente!). La velocità degli spostamenti é considerata fondamentale sia su scala globale che su scala urbana. In tutto questo, però, non solo ci abituiamo a una società molto poco sostenibile (ecologicamente ed economicamente parlando), ma in più ci perdiamo qualcosa: conoscere cosa c’è in mezzo! E avere un’ esperienza diretta delle distanze e dell’interdipendenza tra i luoghi.
È un’esperienza che coinvolge il 100% di se stessi. Mente, corpo, muscoli, sguardo. Credo che lo sguardo, in sella a una bici, riesca ad abbracciare un attraversamento diverso, lontano dalla velocità delle città contemporanee.
I viaggi di un certo tipo non possono che ridimensionarsi a percorsi nuovi per collegare spazi ormai mondialmente conosciuti e già visti. Non é più una questiona di dove vai, ma come ci vai! Proprio perché ammettendo che, diciamo così, lo spazio da “scoprire” sia esaurito, basta cambiare ritmo e ci renderemo conto della vera infinità dello spazio! Questo per dire che é tutto nella nostra testa! Che questa é la fatica più grande: rompere la logica consumistica dei luoghi e darsi il tempo magari di non arrivarci affatto laddove avevamo previsto di arrivare, ma nel frattempo abbiamo vissuto un’esperienza davvero unica! Per le città contemporanee, vale un po’ quello che dicevo sopra sui viaggi in generale: i trasporti pubblici sono credo la grande conquista delle città europee: metro, bus, tram, credo che incarnino il valore positivo della modernità e del progresso, diciamo, sensato! Forse uno di quei valori che si sta perdendo perché magari la velocità di una metro raddoppia ma con essa anche il prezzo del biglietto e di conseguenza i trasporti diventano inaccessibili per molti…In ogni caso, in sella ad una bici uscire da una città é forse una delle esperienze più ricche che uno possa fare: é come entrare nelle quinte di un teatro, darsi il tempo di capire dov’é parcheggiato di notte il bus che prendo ogni giorno? E il trenino che fa il giro del centro? E dove dormono i cavalli delle carrozze per turisti? E dove sono stoccati i rifiuti che produciamo ogni giorno? E le macchine da buttare via? Spesso si trovano in periferia, spesso sufficientemente lontani da non essere visti o annusati. Per non parlare di problemi ancora più delicati e più legati direttamente al sociale come i palazzi popolari a Parigi. Ecco, in bici questi spazi spesso si é obbligati ad attraversarli, e di colpo il nostro sguardo si allarga, la rappresentazione di un luogo s’inspessisce perché abbiamo trovato la chiave d’ingresso per il retroscena.
La lentezza credo abbia anche molto a che fare con i dettagli. Con l’ascolto. Con una nuova forma di condivisione e di pluralità. È così?
La lentezza ti permette di digerire, e di entrare in una specie di processo osmotico con il luogo percorso. Tobias ed io, a parte un mio mal di pancia in Marocco e un suo febbrone in Guinea, per 5 mesi non ci siamo mai ammalati! E puoi immaginare che in termini di acqua bevuta e cibo non ci siamo molto attenuti alle regole consigliate agli europei in vacanza: abbiamo mangiato di tutto e ovunque… Io credo che questo abbia a che fare con il fatto che siamo arrivati progressivamente, fisicamente in forma. Volendo un po’ romanticizzare io ho avuto l’impressione che misurarsi alla geografia del luogo, al paesaggio, lentamente, ti porta non solo a conoscerlo meglio (diciamo dal punto di vista di una conoscenza intellettuale) ma anche ad adattarti ad esso, fisicamente. È un addomesticamento reciproco.
Il dettaglio, per rispondere più precisamente alla tua domanda, é contestualizzato, e la forza della ripetizione ti fa capire cos’è e cosa non é eccezionale, cosa é e cosa non é strano… per esempio: la foto di un uomo imbavagliato in quelle lunghe sciarpe girate mille volte intorno alla testa che lasciano vedere solo gli occhi, é un’immagine tipica che possiamo vedere sui giornali in questi giorni quando si parla della crisi del Mali e spesso si collega quest’immagine a qualche frangia ribelle della società. Ma quando su 5 mesi di viaggio ti rendi conto che poco importa il paese in cui ti trovi (Marocco, Sahara Occidentale, Mauritania, Mali) la metà del tempo lo passi tra uomini vestiti così perché sei nel deserto e che nel deserto c’è sabbia e che la sabbia é mossa dal vento e che dunque viene abbastanza spontaneo proteggersi, beh é ovvio che quell’immagine non la guardi più nella stessa maniera. Non colleghi quel volto a atti di violenza, ricolleghi quel dettaglio ad altri, e finisci per banalizzarlo, per reinserirlo nella quotidianità da cui proviene. Quindi sì, la lentezza ha a che fare con un accumulo di dettagli che ti permettono progressivamente di fare la differenza tra ciò che é anormale e ciò che é normale nel posto in cui si é.
Anche la scrittura é stato un lungo viaggio, fatto in quattro “paesi” diversi, delle quattro lingue che abbiamo usato scrivendo il libro: durante il viaggio tra di noi parlavamo inglese e francese. Tobi scriveva i suoi diari in tedesco, io i miei appunti di viaggio in italiano. Quando ci siamo messi a scrivere si sapeva già che avremmo pubblicato in Italia e Tobias in quel periodo non parlava ancora bene italiano quindi abbiamo usato l’inglese come lingua veicolare tra tedesco e italiano. Lui mi traduceva in inglese i pezzi che ci interessavano del suo diario, io gli traducevo in inglese quello che avevo scritto in italiano. Poi, nel frattempo, io sono andata avanti a scrivere e lui ha imparato l’italiano! La penultima fase é stata rileggere tutto insieme, decidere cosa tenere e cosa no, e poi mi sono rimessa al lavoro per armonizzare il tutto! Insomma anche nella fase di scrittura si é trattato di un viaggio: tra lingue diverse, tra il mio e il suo punto di vista, seduti a tante scrivanie di città lontane l’una dall’altra!