di Riccardo De Gennaro
Come può la fotografia raccontare la tragedia? Quando una fotografia assume un valore
emblematico? Si può fare “disinformazione” fotogiornalistica? Fino a dove può arrivare
la censura? A queste e altre fondamentali domande sul lavoro del fotoreporter risponde il
libro di Annarita Curcio, “Le icone di Hiroshima. Fotografie, storia e memoria”, edito da
Postcart, che racconta delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki alla fine della
seconda guerra mondiale e della loro rimozione nelle coscienze dei due popoli,
americano e giapponese. Fu quasi come se la tragedia – una delle più grandi nella storia
dell’umanità – non fosse avvenuta. Il Giappone aderì immediatamente alla politica degli
Stati Uniti di contenimento dell’imperialismo sovietico, trasformandosi da nemico in
fedele alleato, cosa che non gli permise nemmeno di sviluppare un’elaborazione del lutto.
Non solo. Fino alla fine degli anni Sessanta, come racconta Annarita Curcio, tutta la
documentazione fotografica e cinematografica raccolta da fotografi e cineoperatori che
raggiunsero le due città giapponesi il giorno dopo l’esplosione delle bombe fu inviata al
governo di Washington e occultata in quanto “segreto militare”. Furono rese pubbliche
soltanto l’immagine del gigantesco fungo atomico e alcune vedute aeree delle città
colpite. Il sipario era calato. Il libro ripercorre la cronaca di quelle due terribili giornate,
il 6 e 9 agosto del 1945, analizzando anche l’opera di propaganda che le accompagnò, a
partire dal discorso del presidente Usa, Harry Truman, il quale giustificò l’operazione
dicendo che era necessario “abbreviare l’agonia della guerra e salvare la vita di migliaia e
migliaia di americani”, e dalla famosa foto in cui quattro soldati americani issano la
bandiera a stelle e strisce a Iwo Jima. “Le icone di Hiroshima” è un libro di storia che,
anche attraverso le valutazioni di intellettuali come Roland Barthes e Susan Sontag,
riflette sul valore della fotografia di guerra come testimonianza e sul suo uso
propagandistico.