Profumo di freddo, silenzio assoluto, foglie rosse ingessate di ghiaccio. Il suono dei mille cristalli si fa più forte al passare di un cane color crema, che annusa il sottosuolo fantasticando sul calore della terra. C’è un villaggio, all’estremo sud, nella provincia autonoma del Guangxi, dove la Cina si specchia nel riflesso della propria umidità. E d’inverno, quando la temperatura scende anche di venti gradi sotto lo zero, l’acqua cattura ogni cosa in istanti congelati che durano mesi.
Quassù, a oltre 1200 metri di altitudine, le colline arrivano più in alto delle nuvole e uno strato rado di cotone bianco sembra avvolgere la terra bagnata e inghiottire foreste intere. Il villaggio di Ping An, che trova una paradossale omonimia con una banca da 230 miliardi di renminbi, non ha niente. Se non una natura viva e fertile più che mai, una quantità d’acqua incredibile, un panorama multicolore da mozzare il fiato.
Siamo a un centinaio di chilometri a nordest di Guilin, tra i terrazzamenti di Longji, “la spina dorsale del dragone”, dove la minoranza di etnia Zhuang coltiva il riso da oltre cinque secoli. Ping An è l’unica manciata di case – ci vivono circa duecento persone – in una distesa di chilometri che sembra non finire mai, tra gli sbuffi di un vapore che più che banchi di nebbia sono vere e proprie nubi. Il terreno fa su e giù sulle terrazze di riso allagate, costruite a cerchi concentrici sulle pendici di ogni collina: è una tradizione che affonda le radici nell’antica società feudale, quando i poveri che non avevano terre, per disperazione, cominciavano a poco a poco a conquistare i ripidi pendii e a coltivare quelli. Tradizione che dimostra, ancora una volta, che la storia vera, quella concreta delle cose del mondo, non la fanno i ricchi possidenti ma i poveri nullatenenti.
Non si esagera quando si dice che la Cina, più che un Paese, è un continente. Quello Zhuang è il primo dei 56 gruppi etnici riconosciuti ufficialmente dalla Repubblica popolare cinese e non ha niente a che vedere con il gruppo maggioritario, gli Han, che peraltro sono il gruppo etnico più grande del mondo – rappresenta il 20% della popolazione mondiale. Ancora più piccoli e amichevoli, uomini e donne dimostrano molti meno anni di quelli reali, hanno poche pretese e vivono non solo in stretto contatto con l’ambiente naturale, ma come parte integrante di esso. Qua e là, tra i ciuffi d’erba come corde di una lira di ghiaccio, spunta un piccolo altare degli antenati, una tomba sacra, una lapide incisa di poesie. La maggior parte delle persone qui è animista o segue fedi religiose arcaiche: persino il buddismo ha avuto difficoltà a raggiungere questa landa impervia attraverso chilometri in salita di curvoni e dirupi.
Ecco perché, oltre alla lingua minoritaria, la cucina tradizionale, la religione e gli abiti, l’architettura tipica dalle abitazioni a tre piani con ringhiere di canapa e lo stile di vita semplice e genuino, gli Zhuang hanno conservato anche il più antico ed efficiente sistema di irrigazione al mondo, arrivato direttamente dal popolo Tai, da cui discendono.
Camminare tra le nuvole e a un passo dal tetto del mondo è un’esperienza surreale. Non una parola, non un viso nell’aria gelida che luccica di cristalli, solo la musica della fierezza cinese e della sua controparte paziente. Di tanto in tanto, tra le chiome trasparenti di altissimi alberi incantati, incrocio qualche altro essere umano. Un uomo che trasporta mattoni rossi su un cavallo, una mamma col bambino dal sorriso disarmante, una donna dalla fronte aggrottata.
Liao Meiqiong è l’anziana del villaggio ma a vederla sembra una ragazzina. Ha l’energia di un guizzo nel fiume e quando sorride le si dipingono raggi di sole sul volto. Lei lo sa che fa parte di un popolo privilegiato, che può toccare le nuvole e conoscerle una a una. Ma è anche un popolo che ha avuto molto da soffrire, passato di mano in mano sotto una serie di dinastie senza scrupoli. Terra martoriata da tensioni e rancori, dominatori sanguinari e rivolte da decine di migliaia di vittime, gli Zhuang hanno sempre sopportato male l’autorità e hanno sempre odiato il regolamento del governo centrale, sentendosi alienati e umiliati. Il kanji della minoranza Zhuang è lo stesso di una varietà di cani selvatici, quindi il loro nome veniva considerato un insulto etnico. La scrittura Zhuang, fatta dei caratteri sawndip – letteralmente “carattere immaturo” – ha origini antichissime ed è stata usata per oltre 1300 anni. Sotto il dominio cinese è andata persa, mentre viene ancora parlato il dialetto che si tramanda oralmente – la lingua cinese, qui, non viene parlata affatto.
Da quando è diventata una provincia autonoma, però, le sanguinose rivolte e le tragiche carestie hanno ceduto il posto ad una generalizzata depressione economica di tutta la zona, in cui si continua a far sopravvivere gli usi e i costumi di questo gruppo etnico e della minoranza Yao, con le donne dai capelli lunghi fino a sotto i piedi. La tanto agognata autonomia permette loro di avere qualche diritto in più rispetto alle altre province cinesi: possono avere più di un figlio, per esempio.
“Che ci piaccia Mao o no non ha importanza” mi dice. “Perché se non ci piace non possiamo dirlo”. C’è lui nella banconota che i turisti le mettono in mano da quando ha deciso di aprire la sua casa a chi voglia godere di questo paradiso. C’è lui nella lingua che sente alla radio, c’è lui negli insegnanti delle scuole dove porta le sue sue nipoti, Huang Yi Jiao, adolescente, e Liao Yeyun, che ancora non sa parlare ma già conosce le canzoni in inglese con cui le inculcano il futuro da mattina a sera.
“Il turismo, qui, ci sta cambiando. Non nell’abbigliamento, nel cibo o in altre abitudini quotidiane. Ha cambiato le nostre giornate, le nostre solitudini e i nostri umori. Adesso siamo più ricchi, è vero, e questi soldi ci fanno comodo. Ma la nostra tolleranza a volte è messa a dura prova da ospiti poco rispettosi che buttano tutto per terra e non pensano che questa è casa nostra”. Le chiedo se i turisti si comportano davvero così male con quel luogo intatto che sa di sacro. “Beh, dipende” mi risponde. “Gli stranieri sono gentili ed educati, di solito. I francesi, i tedeschi, gli americani”… Poi fa una smorfia e mi guarda dritto negli occhi. “Sono i cinesi che vengono in vacanza qui ad essere maleducati e irrispettosi”.
Guardo un fiore giallo imbalsamato in una grande goccia solida. Una rara bellezza cristallizzata nel tempo, ma che non si può toccare. Chissà che un giorno, col tepore della primavera, anche questo popolo possa scongelarsi e tornare a vivere.
Testo e foto di Valeria Gentile. Questo reportage fa parte del suo progetto “Viagginversi, reportage
poetico-antropologico sulle tracce dei nuovi poeti del mondo”. Il progetto è completamente autofinanziato e sul
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